In questi due termini — desiderio e idolo — credo di poter racchiudere la vicenda del “’68 e oltre” così come io l’ho vissuta, partecipando al cuore della contestazione nelle università milanesi.
Il desiderio cui mi riferisco è quello delle generazioni di giovani che non trovarono adeguata risposta alla loro esigenza di verità, di bene e di giustizia nella società post-bellica, che pur aveva raggiunto il benessere. Ma era anche segnata da profonde contraddizioni e ingiustizie. Non a caso il movimento del ’68 iniziò negli Usa: lì vigeva ancora la segregazione razziale nei confronti degli afroamericani (dai posti a sedere nei bus o nelle caffetterie, fino all’accesso all’università); John Fitzgerald Kennedy, il primo presidente rappresentante di una minoranza discriminata, quella cattolica, venne eletto nel 1961 e assassinato nel 1963; e in quegli anni decine di migliaia di giovani perdevano la vita in una guerra lontana (Viet-Nam) contro un popolo ignoto, già diviso e oppresso, che li avrebbe alla fine umiliati. C’era però la libertà di manifestare: e cominciò la protesta nei campus statunitensi. Libertà che non c’era, invece, nell’Unione Sovietica e paesi satelliti, dove la costruzione della “società perfetta” avanzava a scapito della libertà, dell’iniziativa e della vita delle persone. Dopo il tentativo di riforma represso a Budapest nel 1956, fu la “primavera” di Praga — proprio nell’agosto ’68 — a rendere manifesto quanto fosse vivo quel desiderio, e poi furono gli universitari di Varsavia in un moto che covò sotto le ceneri fino alla rivolta non-violenta degli operai dei cantieri di Danzica negli anni 80 con la nascita di Solidarnosc e la successiva caduta del regime comunista.
Da noi, paesi dell’Europa occidentale, inizialmente quell’irrequietudine fu rivolta a questioni concrete e immediate, cosa che favorì un’amplissima partecipazione di giovani di ogni tendenza: il famoso “maggio francese”, ad esempio, scoppiò come protesta degli studenti contro la riforma universitaria del Governo; a Milano l’occupazione della Cattolica nel novembre ’67 — inizio del Sessantotto a Milano — fu motivata dall’aumento delle tasse universitarie; e le prime manifestazioni e occupazioni in molte università italiane partirono come protesta contro la “legge Gui” di riforma dell’università.
Come notò Hannah Arendt, l’intero sistema della nostra società era però talmente fragile e formalistico che prese a disintegrarsi rapidamente “di fronte agli occhi attoniti dei giovani ribelli”, attoniti perché all’inizio la rivolta non era programmaticamente distruttrice ma aveva il carattere di un rivolgersi-a per ricercare qualcosa di positivo e di costruttivo, pur se solo vagamente intuito.
Accadde che questo desiderio inappagato s’indirizzò verso una corrispondenza ritenuta immediata e concreta, ma che non era reale: un idolo cioè. Ignorando quanto nel frattempo accadeva in Est Europa (come ammisero più tardi i maggiori leader europei del movimento cioè il francese Daniel Cohn-Bendit e il tedesco Rudy Dutschke), quest’idolo assunse da noi il volto di una delle tante teorie rivoluzionarie discendenti dal marxismo: da quelle dotate di un alone romantico (si pensi alla figura di Che Guevara) a quelle forti di una rigorosa e innovativa (maoismo) o fredda ed efficace (leninismo) costruzione ideologica. Tutte, a chi le sosteneva, apparivano capaci di condurre all’insurrezione rivoluzionaria che avrebbe portato al “mondo nuovo”.
Questa strada comportava cancellare il passato e partire non più dal desiderio che aveva inizialmente mosso ma una teoria da applicare con concretezza. Concretezza comportava eliminare gli ostacoli sul cammino, anche con violenza se necessario (dai servizi d’ordine che espellevano con sprangate dalle università fino, più tardi, alla lotta armata) senza che ciò suscitasse alcun problema di ordine morale o, semplicemente, di ragionevolezza. Che fosse un idolo fu chiaro molto presto per le vittime che fece e per la distruzione che comportò: distruzione di sé più ancora che dei nemici. Frotte di ragazzi, disillusi dall’idolo, si consegnarono al viaggio nel nulla della droga; altri rimasero schiacciati dal constatare che la strada che avevano intrapreso non aveva meta; altri furono vittime, anche fisicamente, della loro generosità tradita. Nel dire questo ho presente nomi e volti di amici e di compagni di scuola e d’università.
Il mio desiderio allora era il loro, ed ero in grado di condividerlo fino in fondo perché avevo sperimentato che una corrispondenza esisteva. L’avevo incontrata pochi anni prima, verso la fine del liceo, nella comunità di Gioventù studentesca, con le sembianze di una umanità totalmente diversa perché totalmente umana: una corrispondenza che sembrava reggere in quelle circostanze, e resse, così come per il resto della mia vita. Partecipare di quella umanità toglieva la paura, cioè faceva sentire a casa propria, e quindi liberi, dovunque, in qualsiasi circostanza della giornata e della vita; dava speranza, cosa ben diversa dall’ottimismo, perché se la speranza riguarda il futuro non può che essere radicata in una certezza nel presente (c’è una bellissima espressione di V. Havel che ne rimarca la differenza: “La speranza non è sicuramente la stessa cosa dell’ottimismo. La speranza non è la convinzione che qualcosa possa riuscire, ma la certezza che qualcosa abbia senso, indipendentemente dalla sua riuscita”); e rendeva il proprio vivere (studiare, lavorare) costruttivo, cioè faceva sì che ogni gesto acquistasse non solo senso, ma anche utilità per sé e per gli altri, per la storia. Nulla era inutile, niente era sprecato. È forse proprio ciò che è mancato ai miei amici, ai ragazzi del ’68.