MONTAGNA/ Se il New York Times ci ricorda la lezione di Rigoni Stern
Un recente reportage del “New York Times” sulle Dolomiti esalta una bellezza che rischia per noi di passare inosservata o, peggio, strumentalizzata. RUGGERO BONTEMPI

“Per la bellezza ultraterrena delle Dolomiti non è necessario l’intervento di alcun traduttore” ha scritto il New York Times alla fine del mese scorso.
Il pensiero è della giornalista Ingrid K. Williams, inviata nel vecchio continente con il compito di costruire un ampio reportage tra le valli e le montagne che, dal 2009, rientrano nel Patrimonio naturale dell’umanità riconosciuto dall’Unesco.
Il suo è il racconto di 36 ore (“36 Hours in the Dolomites”) dedicate alla conoscenza di alcune eccellenze della produzione vinicola e gastronomica, luoghi della Grande Guerra, paesi e musei.
“Questa monumentale catena montuosa della zona dell’Italia nord-orientale costituisce un terreno di gioco idilliaco per gli avventurieri dell’outdoor e per tutte le persone che cercano un assaggio del patrimonio culturale della regione”. Nel sottotitolo l’autrice mette subito in evidenza anche il suo entusiasmo per un ulteriore aspetto, quello dedicato alle attività sportive che si svolgono all’aria aperta: le Dolomiti, si legge nel testo, rappresentano “una delle zone più belle per vivere avventure nella natura, sci, escursionismo, bicicletta, arrampicata e molto altro”.
La Williams ha volato con il parapendio biposto tra le montagne della Val Gardena. Ma un’emozione ancora maggiore ha preso forma a contatto diretto con alcuni dei paesaggi più affascinanti delle Dolomiti: le Tre Cime di Lavaredo con la loro maestosità e il lago di Braies, “dove i colori mutano dallo smeraldo latteo allo zaffiro brillante”.
L’autorevole giornale statunitense, che pochi giorni più tardi ha descritto in un altro articolo l’offesa alla bellezza di Roma rappresentata dalla sporcizia abbandonata tra le strade e i monumenti, ha riproposto agli italiani con lo stesso sguardo attento non solo la meraviglia e l’unicità delle Dolomiti, ma la gratificazione originata da uno sguardo aperto, curioso e ammirato. Ma purtroppo sempre meno diffuso.
L’estate del 2018 è terminata. I primi bilanci forniti dagli operatori sull’andamento della stagione turistica della montagna e delle aree naturali sono positivi (ma inevitabilmente segnati da alcuni eventi di cronaca come la tragedia delle Gole del Raganello e numerosi incidenti mortali sul Cervino, Monte Bianco e altre vette delle Alpi e delle Dolomiti).
I numeri però non danno conto di un altro aspetto del turismo, quello che riguarda le modalità di frequentazione. Sempre più spesso la montagna, ambiente privilegiato per proposte educative guidate capaci di trasmettere il significato del cammino in silenzio, l’esperienza della sobrietà e del sostegno reciproco nel superamento delle difficoltà, diventa terreno di affermazione di esigenze e interessi di tipo personale, comportamenti privi di rispetto dei luoghi e degli altri frequentatori.
“Quando andiamo per i boschi stiamo in silenzio ad ascoltare le voci degli alberi (sono tante e fanno un coro al Creatore); siamo rispettosi nel nostro andare perché è come essere in un grande tempio. Un luogo dove il pensiero si può raccogliere e sviluppare in meditazione sulla vita, sulla bellezza del Creato, sulla nostra fuggevole esistenza”. Queste parole dello scrittore Mario Rigoni Stern risuonano sempre più distanti.
Tra i boschi e sui sentieri di fondovalle, ma anche tra gli ambienti più selettivi dell’alta quota, è sempre più diffusa una frequentazione disordinata e distratta, talvolta dannosa per il mantenimento dei delicati equilibri ecologici, delle componenti del paesaggio naturale e di quelle che derivano dall’operatività dell’uomo.
La montagna sta forse diventando lo spazio più distale di uno dei tanti anonimi e scarni parchi delle nostre città? Da dove può arrivare la risposta a questa distrazione?
Il pieno godimento per la montagna e per la natura non può che giungere dal riconoscimento di una bellezza che ferisce e interroga il cuore dell’uomo.
Il viaggio del New York Times regala l’esperienza di uno stupore sperimentato e condiviso. “Già Platone diceva che tutta la filosofia comincia con lo stupore. Anche la nostra fede comincia con lo stupore della creazione, della bellezza di Dio che si fa visibile”. (Benedetto XVI)
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