Il futuro Papa Benedetto XVI nell’omelia del 10 dicembre 1978 nella parrocchia St. Martin di Unterwössen, disse: “…Forse possiamo capire nel modo migliore cosa vuol dire cristianamente redenzione a partire da qui: non trasformazione magica del mondo, non che ci viene tolta la nostra umanità, ma che siamo consolati, che Dio condivide con noi il peso della vita e che ormai la luce del suo condividere l’amore e il dolore sta per sempre in mezzo a noi”. È questa coscienza che indirizza il nostro destino: “Nell’esperienza della nostra nullità, della nostra fragilità totale, c’è un senso del destino, l’uomo è quel livello della natura in cui la natura percepisce il destino, d’essere destinata” (cit. in Luigi Giussani, La convenienza umana della fede, Milano, Rizzoli 2018, p. 41).
Destino, appunto, un concetto che è centrale nell’essere cristiani, perché “Questo è il peccato, non l’incoerenza e la fragilità, che hanno una consanguineità così grande ed evidente con la nostra nullità da destare compassione, ma il tentativo di annichilire la percezione di qualcosa di grande, cioè l’indifferenza al Destino” (ib. pp. 41-42).
Come già in altre occasioni propongo un metodo: riflettere su come alcuni concetti fondanti siano arrivati fino a noi attraverso slittamenti concettuali ci aiuta a tornare all’essenziale, all’origine del senso.
Da dove viene l’idea di destino? Per i Greci il concetto di destino ha un valore del tutto particolare, che potrebbe risultarci estraneo oggi e che ha a che fare con l’idea di “inizio” ma anche di “costrizione”. Quando nasciamo abbiamo in dote una quantità di vita e questa segna non solo tutto ciò che ci accadrà in seguito, ma anche l’ora e l’occasione stessa della nostra morte. Come accade in altri campi semantici del greco esiste una sottile analisi concettuale di questi aspetti che si riflette nei diversi termini con cui il destino è nominato.
Abbiamo innanzitutto Moira (femminile) o moros (maschile). Sono termini interessanti, perché provengono dalla radice mer- che indica la parte di qualcosa, per esempio la parte di un terreno. Se usiamo il termine come metafora per il nostro destino, questo appare concettualizzato come una “parte assegnata” che non possiamo modificare, come un pezzo di torta che è già stata suddivisa. Proprio per questo le Moirai sono le dee che stabiliscono per ognuno di noi una parte di vita. Esiodo nella Teogonia scrive che sono figlie della Notte, ma altrove che sono figlie di Zeus e di Themis, la dea il cui nome significa l’”irremovibile” e che dunque presiede l’ordine e la giustizia. I loro nomi: Cloto “la filatrice”, Lachesis “colei che decide la sorte” e Atropos, “l’inevitabile, l’inflessibile”.
C’è un altro termine che in qualche modo rimanda al suddividere qualcosa, Aisa (in Omero aise) che indica la parte del bottino che spetta al guerriero. Anche qui una metafora per concettualizzare la vita come una parte di qualcosa che riceviamo e su cui non possiamo intervenire.
Sul destino, dunque, non possiamo influire ed ecco che un altro termine ci conduce in questa direzione: ananke che ha il valore di “necessità, costrizione”, con un’interessante parentela con l’ittita #enkan, morte. È il destino nella sua inevitabilità che sta sopra l’uomo e lo condiziona.
I Greci hanno infine tyche, termine che, come il latino Fortuna, non ha di per sé valore positivo o negativo, ma può esserlo a seconda del contesto. La tyche è la sorte fortuita, accidentale, imprevedibile. Le sfumature cui si presta l’interpretazione della tyche sono diverse. Da una parte la Tyche è irrazionale e mutevole, ma spesso è un sinonimo di ananke con tutto il suo valore di ineluttabilità.
Il mondo latino ha termini che in qualche modo traducono i concetti greci, ma ne sottolineano anche uno slittamento.
Un termine che ritroviamo nella mappa concettuale latina è sors. Alle volte sembra simile alla Moira greca, per esempio nella Tebaide di Stazio il termine ha il valore di “parte avuta in sorte”, proprio come nel corrispettivo lessicale greco. Spesso ha un valore negativo come si vede dagli aggettivi che si affiancano al termine: durae sorti o acerbam sortem nelle Argonautiche di Flacco; aspera sors, aegra sorte, laevae sortis nella Tebaide di Stazio; horrida sors, sorte cruenta, tristi sorte nella Punica di Silio Italico. Designa, dunque, eventi luttuosi, spiacevoli, sfavorevoli.
In latino il concetto di destino è espresso anche dal sostantivo fatum, si tratta di un participio passato del verbo fari, “dire”, dunque ha a che fare con la parola, con il parlare. Ma è un parlare del tutto particolare perché questo verbo è usato quando si intende il parlare dell’augure, dell’indovino o dell’autorità politica. Dunque il fari è possibile solo per chi ha un ruolo di potere, la cui parola può avere degli effetti, può modificare la realtà.
I latini possedevano anche un verbo simile al nostro: destinare, che significava “fissare”, “bloccare”, un termine con cui si indicava l’atto concreto di fissare, nel senso, ad esempio, di inchiodare qualcosa oppure, per metafora, una decisione ferma e irremovibile. Il nostro “destino”, che deriva dal destinare latino, da una parte rimanda al campo metaforico del fermare, del fissare, del legare e dall’altro ingloba una parte della sors e del fatum.
Ma in latino esiste anche la fortuna come opposto ai fata, termine che traduce con qualche slittamento semantico la tyche greca, quanto questi sono frutto di una costrizione originaria, tanto quella è il campo del possibile, dell’imprevedibile.
Il cristianesimo media questo universo concettuale con la tradizione ebraica costruendo una propria antropologia che vede il Destino come avvenimento, qualcosa che è accaduto nel mondo e mette in gioco la nostra libertà. Agostino svolge qui un ruolo importante di mediazione fra l’idea di ineluttabilità, di parte già assegnata, che ereditava dal mondo classico e l’idea dell’agire umano in quanto autonomo e non predeterminato, che si era sviluppato già nei primi secoli del cristianesimo. Egli elabora una dottrina dei concetti di grazia e predestinazione nella quale sottolinea che nessuno si salva da sé, ma solo colui che è stato preventivamente “liberato” dalla grazia. In questo modo non negava tuttavia la libertà dell’uomo, ma tentava una sintesi tra la dimensione dell’agire umano e l’ineluttabilità del mondo che ci lascia soli innanzi al suo significato.
“La fede cristiana (…) mette in conto il fattore libertà. Questo significa che Dio da un lato abbraccia tutto. Sa tutto. Guida il corso della storia. E tuttavia ha predisposto le cose in modo tale che la libertà vi trovi il suo posto. In modo che io possa per così dire prendere le distanze dal progetto che Dio ha per me (…) Dio ha creato una libertà effettiva e ci permette di scompaginare i suoi piani (per quanto lo faccia in modo che dal disordine scaturisca qualcosa di nuovo). La storia lo dimostra. È dapprima il peccato di Adamo a sovvertire il progetto di Dio. E Dio risponde mostrandosi ancora più forte, facendoci dono di se stesso in Cristo” (Joseph Ratzinger, Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio. In colloquio con Peter Seewald, San Paolo, 2001, p. 49).