“Con tutta la loro potenza iconoclasta, internet e i media digitali personali sono diventate le tecnologie dell’immaginario dominanti. E abbiamo finito per sacrificare ogni mito, divo ed eroe, sull’altare del soggettivismo, potenziato nei nostri anni dalla celebrazione digitale dell’io”. In questo sintetico giudizio dell’ultimo rapporto del Censis si possono ritrovare gli elementi di fondo dell’attuale momento politico-sociale.
C’è la demonizzazione del passato, con l’enfasi di una narrazione in cui la società è segnata, al di là e al di sopra della realtà, dalla crisi, dalle sconfitte, da una politica incapace e velleitaria. C’è il soggettivismo come elemento centrale di giudizio e quindi la perdita di punti di riferimento ideali di condivisione e di solidarietà. C’è la “celebrazione digitale dell’io”, per cui prevale il giudizio sommario, la soluzione facile, lo slogan al posto dell’analisi, lo sfregio della competenza vista come asservimento a interessi particolari.
Questo per dire che negli ultimi vent’anni la società, non solo italiana, ha subìto profondi scossoni, di cui si sono viste già le conseguenze politiche con l’emergere di una classe dirigente completamente nuova, ma di cui si vedono ancora a stento le prospettive che potranno derivarne.
Ma, dato che i problemi non vengono mai da soli, questa rivoluzione digitale, che si è trasferita rapidamente dagli strumenti ai comportamenti, è avvenuta in un momento in cui si moltiplicavano i fattori di crisi a livello planetario. L’ordine mondiale che si era pur a fatica instaurato dopo la Seconda guerra mondiale è stato infatti travolto da una catena di mutamenti altrettanto rapidi quanto dirompenti. Dal crollo del muro di Berlino con la dissoluzione dell’Unione Sovietica all’apertura della Cina al commercio mondiale, dalle crisi nel Medio Oriente al raffreddamento del processo di unificazione europea, vi è stata quasi una perdita dei tradizionali punti di riferimento che ha aperto la strada alla ricerca di cambiamenti forti: ecco la vittoria di Trump, la Brexit, i gilet gialli, i populisti.
In questo scenario emerge con evidenza quella che Antonio Pilati nel suo ultimo libro chiama La catastrofe delle élite (Guerini e Associati, 2019). Pilati, grande esperto del sistema della comunicazione, già membro dell’Autorità Antitrust e del Cda Rai, traccia un affresco a tinte forti sull’evoluzione della società italiana in una prospettiva che si sviluppa sia attraverso l’analisi dei vincoli (interni ed esterni) che la politica si è auto-imposta, sia evidenziando l’impatto, con tutte le potenzialità e i rischi, dell’evoluzione tecnologica.
Ne emerge l’incapacità della politica di offrire risposte strategiche e quindi di proporre una visione del cammino su cui la società può incamminarsi. E insieme la perdita di influenza e di rappresentanza dei corpi intermedi (le associazioni, i sindacati, i gruppi sociali) travolti da un processo di disintermediazione dalle conseguenze sempre più vaste. Se a questo aggiungiamo lo schiacciamento della classe media e la perdita di qualità dei processi educativi trascinati verso il basso da un mal interpretato egualitarismo, abbiamo l’immagine di un Paese che ha perso ogni punto di riferimento. E non è una consolazione che la crisi della politica sia una malattia comune, pur con tratti e gravità diverse, all’intero Occidente.
L’immagine che dipinge Pilati è tracciata con i pennelli del realismo, con la volontà di andare più in profondità rispetto ai 140 caratteri di twitteriana tradizione. Un pessimismo di fondo sia della ragione, sia della volontà, ma in cui comunque si può rintracciare qualche frammento di energia positiva sfruttando le chance favorevoli della stessa innovazione tecnologica. A patto che la politica non continui a muoversi solo per vincere le elezioni. Mai come ora certe vittorie, basta guardare alla Brexit, rischiano di diventare in fretta delle vittorie di Pirro. Scelte che creano più problemi di quanti si pretendeva di risolvere.