Con Esploratrici solitarie, volume che raccoglie poesie stese tra il 1990 e il 2017 pubblicato per i tipi della Raffaelli Editore, Paolo Valesio ritesse la trama intorno a cui si muove, fin dagli anni 90 del secolo scorso, la sua opera poetica. Si tratta di quella che chiamerei l’interstizialità del trascendente, da un lato, e, dall’altro, degli sconfinamenti tra sacro e profano.
Parlo di una ritessitura messa in atto da questo volume perché sono abbastanza persuaso che il precedente, ossia La mezzanotte di Spoleto (uscito sempre nella medesima collana di Raffaelli), rappresenti una sorta di sospensione lirico-estetica lungo il filo di un continuum poetante che si distende oramai da più di un trentennio. Nel corso del quale Valesio passa dalla non-destinazione del “dardo” alla necessaria inutilità della “esploratrice”.
Movimento al fronte quest’ultimo, senza alcuna rassicurazione nelle retrovie da cui comunque proviene – rimanendo aperta la questione se da quelle l’“esploratrice” sia stata o meno inviata. Allo stesso modo, essa si presenta come dis-giunta da qualsiasi articolazione di un corpus – ma impossibile senza di esso proprio in quanto ordine mancante.
La composizione del volume in tre capitoli/sezioni accenna chiaramente a un movimento iniziale o, forse meglio, di iniziazione che continua a tornare senza per questo essere mera ripetizione.
Piuttosto, parlerei di una ripresa e di un rilancio incessante di una poesia che si confessa, senza più timore alcuno, nella sproporzione di se stessa. Come senza timore si prende definitivamente distanza dal bon ton del politicamente corretto letterario, che guarda con sufficienza, e non senza una qualche commiserazione, a qualsiasi scrittura mediante la quale Dio si attesta perché in essa esplicitato. Foss’anche come assenza o divagazione inutile all’avanscoperta.
Oggi intorno a Dio ci giriamo tutti, senza però avere più la forza di farcene carico con responsabilità – almeno nella nostra cultura laica italiana, così impegnata ad affermare il proprio distinguo da non avere più idea rispetto a che cosa si confessa la propria alterità. Non rendendosi però conto che attraverso l’immaginario di Dio, nell’Occidente europeo, ci transitiamo tutti – non disponendo oggi di un linguaggio all’altezza del nostro passarvi.
Il permanere di questo transito nell’immaginario di Dio è a mio avviso l’aspetto davvero intrigante di una cultura che da lungo si è congedata dalla confessione di lui. A questo intrigo lavora la poesia di Valesio quale iniziazione del linguaggio a esso. Se nelle sue opere precedenti questo nucleo poteva apparire più discreto, con le Esploratrici Valesio lo mette apertamente in campo e lo fa funzionare come la stessa architettura portante del volume.
Alla fin fine, l’“esploratrice” è la preghiera quale forma est/etica adeguata dell’eccesso che la poesia è a se stessa: un modo, per Valesio il modo, per farlo transitare in quel linguaggio nel quale fluttua senza fermarsi in esso. Appoggio dell’extra-linguistico, dell’oltre oltre-linguaggio che sconfina in esso meticciandovisi – indistinguibilità di preghiera/poesia nell’orizzonte immaginario di Dio, intorno a cui Valesio convoca tutto l’apparato sensorio del lettore.
Anche quest’ultima non rappresenta una novità nella sua opera, inedita è però a mio avviso la marcata accentuazione del sensuale e della sensualità come forza che tiene/trattiene il linguaggio poetico nell’eccedenza a se stesso. Come l’autore racconta nella “Testimonianza” che apre il libro, la censura/espulsione (la parola è mia, non di Valesio) editoriale di una poesia dalla raccolta di un volume precedente, non solo ha rappresentato il nucleo intorno al quale si sono andati a raccogliere tutta una serie di altri componimenti, ma ha prodotto anche un fuoco in cui il sensuale e il trascendente convergono nel linguaggio.
Sensuale-sensi-sensualità, un trittico che sta al cuore delle Esploratrici aprendo un piccolo varco verso la dimensione degli affetti e dell’affezione. A mio avviso, rispetto alla sua produzione precedente questo volume concede, infatti, maggiore afflato affettivo a quell’immaginario di Dio per il cui attraversamento Valesio appronta il giusto linguaggio poetico.
In attesa che, quando ne va di questo immaginario, il “mentale” riesca a passare attraverso il medesimo lavorio patito dall’”erotico” nell’opera di Valesio – quello proprio della grazia.