Caro direttore,
la Chiesa è davvero “Mater et Magistra”: come ogni mamma vera non può non essere maestra, proprio come ogni vera maestra non può non avere uno sguardo materno verso il suo alunno. Questo indiretto riferimento a Giovanni XXIII e alla sua prima enciclica sociale è importante per la mia storia, perché fu proprio al tempo del suo pontificato che m’innamorai della dottrina sociale della Chiesa.
Sono grato a Giovanni XXIII, ma anche a don Giussani, che cominciai a seguire sul finire del 1961, quando frequentavo il liceo: “il Gius” mi ha portato a innamorarmi di Cristo e della sua Chiesa – di tutta la sua Chiesa, non solo del movimento di Cl – cosa che ho percepito e verificato quasi subito, fin dal 1963, quando lessi l’affascinante lettera enciclica Pacem in Terris, che parve rivoluzionaria per quel tempo e segnò con l’intero pontificato di Papa Roncalli una vera svolta nella storia della Chiesa. Da lì iniziò la mia passione per la dottrina sociale, una passione che è andata crescendo e consolidandosi nei decenni successivi.
Un recente testo di Benedetto XVI (Liberare la libertà) propone una riflessione stupenda: “La speranza nei cieli non è nemica della fedeltà alla terra. Confidando in ciò che è più grande e definitivo, noi cristiani possiamo e dobbiamo infondere la speranza anche in ciò che è provvisorio, nella dimensione politica e nella sfera delle istituzioni”. Questa frase mi pare sia un po’ la sintesi della dottrina sociale della Chiesa. Essa ridice ciò che nella dottrina sociale della Chiesa, pur con diverse espressioni, è detto con insistenza, a partire dal memorabile incipit della Immortale Dei munus di Leone XIII (1885): “Quell’immortale opera di Dio misericordioso che è la Chiesa, sebbene in sé e per sua natura si proponga come scopo la salvezza delle anime e il raggiungimento della felicità celeste, pure anche nel campo delle cose terrene reca tali e tanti benefìci, quali più numerosi e maggiori non potrebbe se fosse stata istituita al precipuo e prioritario scopo di tutelare e assicurare la prosperità di questa vita terrena”.
Anche Papa Francesco, nel messaggio indirizzato al Meeting dello scorso anno, riprende questa questione, proponendoci una forte sollecitazione al lavoro culturale e invitandoci a fare esattamente l’opposto di quanti, “cedendo al fascino” della prospettiva rivoluzionaria del ’68, “fecero della fede un moralismo”. Francesco formula un preciso invito a quella metànoia che la crisi del nostro tempo sembra aver definitivamente dimenticato con gli effetti che il Papa stesso ricorda: “si torna a erigere muri, invece di costruire ponti” (“Si tende a essere chiusi, invece che essere aperti all’altro diverso da noi”, cresce l’indifferenza; prevale la paura). Egli spinge a un intenso lavoro “culturale” (cosa ben diversa dall’intellettualismo che caratterizza anche non pochi pensatori cattolici), che sia capace di diventare una sorta di mediazione tra fede e vita, perché riusciamo a impegnarci a rendere “più abitabile” il nostro mondo, riuscendo a evitare le due tentazioni dello gnosticismo e del neopelagianesimo, che egli stesso richiama.
La fede cristiana implica un’unione profonda tra fede e vita. Lo ha ben esemplificato Giovanni Paolo II nella sua Fides et ratio (1998), scrivendo che “La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità”. Un’ala sola non basta; ce ne vogliono due: la fede e la ragione – come suggeriscono i frequenti richiami del magistero di tutti i Pontefici a far tempo almeno da Leone XIII – si sostengono e si implicano reciprocamente, “simul stabunt, simul cadent”, come la storia continuamente ci mostra, soprattutto negli ultimi secoli.
Oggi non basta più dare “buoni esempi” che esprimono solo una sorta di “attivismo sociale”. Nel Vangelo di Matteo, Gesù, dopo aver detto ai suoi discepoli che sono il sale della terra e la luce del mondo, dice loro che gli uomini devono vedere le nostre opere buone e rendere gloria al Padre che è nei cieli (cfr Mt 5,16). Credo che il compito della cultura cristiana sia proprio questo: mostrare l’oggettiva convenienza che l’agire dell’uomo sia in linea con la legge che Dio ha messo nella natura umana e in tutto il cosmo. Dobbiamo certo operare nel campo della carità concreta, ma lo scopo delle “opere” è quello di tenere desta la fede in noi, di non farla morire e di far vedere la gloria di Dio: non nobis, Domine, sed nomini tuo da gloriam.
Fede e ragione si integrano vicendevolmente. Giovanni Paolo II ci ha detto espressamente che “Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”. Il compito che il nostro tempo ci richiama continuamente è proprio quello di mostrare la convenienza e l’utilità di quella legge naturale, che altro non è che la legge voluta da Dio per ben regolare la vita dell’uomo, credente o meno che sia. La dottrina sociale della Chiesa è lo strumento più adatto per imparare ad attivare e rendere incisive queste due “ali” che Dio ha dato all’uomo.
Mi piace pensare e testimoniare che la dottrina sociale della Chiesa è come la lettera della morosa: la si legge, poi si mette in tasca; poi la si tira fuori e la si rilegge e, a poco a poco, l’affetto cresce. La dottrina sociale della Chiesa non è una sorta di ideologia da contrapporre all’ideologia del mondo: è piuttosto una mentalità, cioè una “cultura” da assimilare in modo osmotico, a poco a poco, cambiando la nostra mentalità, così che a poco a poco l’uomo nuovo comincia a manifestarsi. L’assimilazione avviene insieme alla crescita della nostra affezione a Cristo, sperimentando che tale affezione non cresce se non contestualmente alla crescita della nostra affezione alla Chiesa, a una Chiesa “esplicita”, non idealizzata, ma fatta di “peccatori che – come ha detto Papa Francesco riferendosi a se stesso – si riconoscono guardati da Dio”. Come egli ci ricorda, il cristiano non può rinunciare a sognare che il mondo cambi in meglio, visto che “una fede autentica implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo”: anche noi “vogliamo la vita e desideriamo giorni felici”, come l’interlocutore a cui si rivolgeva san Benedetto.
La sfida del nostro tempo è il dialogo tra chi ha fede e chi la fede la nega, ma conserva la capacità di usare bene la ragione. Se non abbiamo il coraggio di affrontare questo dialogo, noi che magari diciamo di essere “uomini di fede”, “peccatori, ma di fede”, in realtà dimostriamo di non avere fede: forse è proprio pensando a noi che Gesù un giorno si chiese: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8).
Noi cristiani crediamo che la fede in Cristo abbia qualcosa di importante da dire all’uomo, soprattutto all’uomo a noi contemporaneo: se questo è vero dobbiamo dialogare con ogni uomo e per farlo occorre usare le categorie della ragione. Interessa a noi, anzitutto, dialogare con chi non ha fede, perché – come ha ricordato espressamente Benedetto XVI nel memorabile discorso di Regensburg – il Dio cristiano è il Dio-Verità: Dio e la Verità coincidono e il nostro culto è una “λογική λατρεία” (Rm 12,1). La traduzione latina è resa con l’espressione “rationale obsequium”, ma non è resa adeguatamente dall’italiano “culto spirituale”, perché appare un po’ “sfumata”, per così dire. Non intendo qui entrare in un argomento per il quale non ho competenze specifiche, ma credo che quel λογική implichi anche un preciso riferimento al “Logos”, che per noi cristiani è la Seconda Persona della Trinità, cioè il Verbo di Dio, la Sua Parola-Ragione: dialogare con chi usa la ragione è un dovere per noi, perché la Verità non è una cosa privata, ma interessa tutti gli uomini: tutto l’uomo e tutti gli uomini.
Per la conoscenza che ne ho, credo che la dottrina sociale della Chiesa possa essere davvero la punta di diamante del dialogo con l’uomo del nostro tempo. Purché, però, sia proposta non come un’ideologia, ma come un’esperienza da vivere, convalidata dalla letizia di chi la propone.
Ma per proporla, occorre riprendere a conoscerla e ad amarla, come si fa – appunto – con una lettera della morosa…