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Home » Politica » DA CLINTON A BLAIR/ La lunga parabola “dem” che ha preparato la vittoria della destra

  • Politica
  • Europa
  • Usa

DA CLINTON A BLAIR/ La lunga parabola “dem” che ha preparato la vittoria della destra

Vincenzo Caccioppoli
Pubblicato 15 Giugno 2025
D'Alema e Clinton

Massimo D'Alema con Bill Clinton nel 1999 (ANSA-Reuters)

Le politiche di destra di Clinton e Blair hanno messo in crisi la sinistra. Che non si è ancora risollevata. E non ha nessuno in grado di guidarla

La sinistra sembra sull’orlo di una crisi di nervi in entrambe le sponde dell’Atlantico, sprofondata in una crisi di identità in primis e di leadership in secondo luogo. Una crisi profonda, che parte da molto lontano, e comincia, forse, proprio quando la sinistra sia in Europa che negli Stati Uniti veniva (a torto) considerata in buona salute.


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Era il 1992 quando sulla scena politica americana irruppe Bil Clinton, dopo un quarto di secolo in cui alla presidenza si erano alternati ben quattro presidenti repubblicani, con la sola parentesi (1977-1981) del democratico Jimmy Carter. Un tornado che pareva poter far tornare il vecchio partito democratico americano, nato agli inizi dell’Ottocento come partito difensore dei diritti degli Stati del Sud (e quindi anche della schiavitù, messa in discussione per primo dal repubblicano Abraham Lincoln) ai suoi antichi fasti.


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Dopo il doppio mandato del repubblicano Ronald Reagan e il quadriennio molto meno degno di nota di Bush senior, l’America si fece abbagliare da questo giovane uomo di provincia, con una moglie molto più ambiziosa di lui e con una grande carriera di avvocato d’affari alle spalle. Ma bastarono pochi mesi della sua presidenza per capire che il sogno di una sinistra che tornava a recitare il suo tradizionale ruolo di protettrice dei poveri e degli emarginati era svanito come neve al sole.

Malgrado la sua prima presidenza, che fu un esempio di tutto quello che la sinistra aveva sempre disprezzato e criticato, Bill Clinton fu rieletto nel 1996 da appena il 49% degli elettori americani (contro oltretutto un competitor repubblicano debolissimo come Robert Dole), segno tangibile dell’insoddisfazione verso il suo primo mandato. Insoddisfazione soprattutto da parte della poor class americana, da sempre zoccolo duro dei democratici.


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Una rielezione che fu possibile perché Clinton appoggiava ed era appoggiato dalle grandi imprese americane, che finanziavano mai come prima il Partito democratico. I democratici stavano diventando, sotto la presidenza Clinton, il partito delle grandi corporations americane e del mondo finanziario di Wall Street. I Clinton (mai come allora la first lady fu considerata alla stregua del marito presidente, e spesso c’era la sua mano dietro  molte delle politiche del marito) avevano rivoluzionato i democratici americani, che si stavano trasformando in qualcosa di diverso da come sempre erano stati considerati.

Clinton fu autore di una politica di taglio delle tasse per i più ricchi e per le imprese senza precedenti. Fu così che la celebre Cintoneconomics contribuì a ridurre l’inflazione e a fare crescere l’economia, e questo avvenne soprattutto ai danni delle classi medie e povere degli Stati Uniti. Solo dopo anni Clinton ammise candidamente il suo sostanziale fallimento (o meglio, quello dei valori del “suo” Partito democratico): “abbiamo aiutato il mercato borsistico, e deluso le persone che ci hanno votato”.

I suoi consiglieri economici Robert Rubin e Larry Summers contribuirono a smantellare la rigida (fino a quel momento) regolazione del sistema finanziario, e da lì cominciò una deregulation che dopo quindici anni esplose nella bolla dei mutui subprime, sotto la presidenza Obama, che sconvolse le economie di tutto il mondo. Un disastro di cui inevitabilmente Clinton ha pesanti responsabilità, che hanno poi determinato la clamorosa sconfitta della moglie nel 2016 contro Trump.

E così come Clinton in America, la stessa cosa si può dire in Europa per un’altra icona osannata dalle sinistre di mezzo mondo, Italia in testa, ovvero Tony Blair. Già il suo motto della “terza via” in qualche modo spostava il baricentro delle politiche dei labour verso quelle dei tories. D’altra parte, che il suo vero intento fosse quello di cambiare il vecchio labour party, era stato detto chiaramente durante il Congresso di Blackpool del 1994, nel quale accettò formalmente il ruolo di leader del Labour.

Nel 2010 Blair spiegò meglio qual era la sua idea di un nuovo partito: “Stavamo entrando nel XXI secolo, erano passati cinque anni dal crollo del Muro di Berlino, e perfino la Cina comunista stava abbracciando l’economia di mercato socialista; se il partito laburista inglese era intenzionato a credere ancora nella proprietà pubblica dei mezzi di produzione, distribuzione e scambio significava che non eravamo seri. Una posizione simile avrebbe confermato i peggiori dubbi della gente”.

Un cambio a 360 gradi che sconvolse il Dna del partito laburista, così come la “conversione” di Clinton fece con il Dna dei democratici, dando l’avvio a quella perdita di identità della sinistra, che si è protratta e, se possibile, amplificata in questi primi 25 anni del secolo. Blair fu il primo leader laburista a rompere con le potenti Trade Unions britanniche per spostarsi verso la middle class. Questo fu il primo passo verso il progressivo spostamento a destra dei labour. È a questa mutazione che va fatta risalire la prima spaccatura del partito, che diede origine nel tempo ad una reazione forte e leader estremi che mai avrebbero potuto vincere, come Ed Miliband o recentemente Jeremy Corbyn.

La sinistra insomma ha perso la sua identità e compattezza proprio per “merito” delle presidenze di due tra i più suoi autorevoli rappresentanti, almeno negli ultimi trent’anni. I conservatori sono stati bravi ad occupare gli spazi vuoti lasciati dalla sinistra e a conquistare sempre più il voto della middle class (proprio Blair diceva che le elezioni si vincono conquistando quella fetta di popolazione, ed in effetti aveva ragione). Sui temi tradizionali del centrodestra, come sicurezza, diritti civili, immigrazione, fisco, i partiti della destra sono stati visti come più credibili, non fosse altro per la coerenza dimostrata, e il risultato è che ora le destre vincono in mezza Europa, mentre negli Usa Donald Trump ha facilmente riconquistato la Casa Bianca.

Ora la situazione della sinistra appare arrivata ad un punto di non ritorno, anche perché negli anni Novanta poteva proporre personalità forti (anche se certamente non propriamente di sinistra) in grado di fare da traino alla loro parte politica. Adesso invece alla sinistra, oltre che le idee, sembrano mancare leader forti e carismatici, a meno che non ci si voglia attaccare come fa Elly Schlein a un debolissimo Pedro Sánchez in Spagna, al premier britannico Keir Starmer, che dopo una trionfale campagna elettorale sta virando a destra ancora più del suo predecessore Rishi Sunak.

Perché alla fine la vera contraddizione di fondo di questa sinistra del nuovo millennio sembra essere quella di predicare bene in campagna elettorale o quando si trova all’opposizione sulla difesa dei diritti civili, del lavoro, di una sanità più equilibrata, un fisco più equo e una maggiore sostenibilità. Peccato che poi quando si trova a governare si faccia abbagliare da quell’irrisolto complesso di superiorità che la porta a seguire paradossalmente la destra sul suo stesso terreno. Per dire “qualcosa di sinistra” dovrebbe uscire al più presto da quell’elitarismo di maniera di cui proprio Clinton e Blair sono stati forse i principali precursori.

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Tags: Elly SchleinRishi Sunak

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