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Home » Economia e Finanza » Economia Internazionale » Economia USA » TRA DOLLARO E DEBITO/ Ecco perché la ricetta Trump rischia di fallire

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TRA DOLLARO E DEBITO/ Ecco perché la ricetta Trump rischia di fallire

Le ricette economiche che Trump vuol mettere in campo rischiano, seppur giuste nei fini, di fallire per via dei mezzi scelti

Fabrizio Pezzani
Pubblicato 8 Giugno 2025 - Aggiornato alle ore 06:48
Trump

Donald Trump (c) durante un meeting del suo Gabinetto. A sin. Marco Rubio, a d. Pete Hegseth (Ansa)

Al momento del suo insediamento come Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump ha dovuto confrontarsi con il crescente debito pubblico americano, che già si era innalzato specie dopo la crisi di Lehman Brothers: nel 2008 il debito era di 10.100 miliardi di dollari, mentre oggi è a quota 37.000 miliardi.

Gli interessi sul debito sono esplosi durante la presidenza di Biden, passando dai 530 miliardi del 2020 a un ammontare che supera oggi i 1.000 miliardi e che sembra crescere in modo iperbolico. Gli Usa spendono di più di quanto incassano e nei primi mesi del 2025, a fronte di 3.100 miliardi di entrate, le uscite sono state di quasi 4.200 miliardi.


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A fronte di questo debito che sta crescendo molto più degli incassi, l’azione di Trump è stata quella di abbattere la spesa pubblica e di aumentare con i dazi le entrate fiscali, che grazie a questa manovra sono cresciute di quasi 60 miliardi di dollari. Tuttavia, i dazi hanno avviato un effetto sulla spesa pubblica e sulla spesa delle famiglie; il deficit commerciale degli Usa si è ridotto del 16% per la prima volta da decenni e ha avuto un andamento regressivo come da decenni non si verificava.


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Le finalità del Governo Usa sono chiare, ma i mezzi scelti non sembrano in grado di sostenere la spinta alla riduzione del deficit; è utile capire la dinamica dell’esplosione del debito e quanto questo possa essere contenuto dai programmi dell’Amministrazione Trump.

Recentemente è stato approvato dalla Camera ma non ancora del Senato il “Big Beatiful Bill Act”, che prevede una riduzione delle imposte tale da agevolare le piccole e medie imprese del settore terziario, ma che comporta l’innalzamento del debito e una riduzione della spesa sociale a scapito della classe media e di quelle più deboli. Con questo atto aumenta la disuguaglianza, già tra le più alte degli Stati occidentali, perché il 10% della classe elevata vede aumentare la propria ricchezza del 2%, mentre il 10% delle classi più disagiate vede aumentare la propria povertà del 4%.


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L’altra azione di Trump funzionale a raggiungere un equilibrio, anche tramite i dazi, è quella di disincentivare la delocalizzazione selvaggia che dagli anni Novanta ha privato l’economia americana delle attività manifatturiere che sono crollate a scapito della finanza e del settore dei servizi, che hanno visto innalzare l’occupazione rispetto a quella manifatturiera passata dal 50% al 10%. Anche questa finalità è condivisibile, ma i mezzi diventano troppo deboli per realizzare questo obiettivo in tempi stretti evitando la recessione e favorendo il ritorno della manifattura.

L’azione di delocalizzazione e finanziarizzazione dell’economia reale è iniziata a ridosso della caduta del Muro di Berlino (1989), dando l’idea che il modello di sviluppo fondato sulla finanza fosse il mantra della crescita infinita. Infatti, è proprio negli anni Novanta che comincia l’era della finanza che accomuna l’Accademia, la Politica e gli interessi dominanti nel dettare una forma di monopolio culturale in tutti i sensi.

Nel 1990 l’Accademia di Svezia assegna il Nobel per l’economia a Harry Markowitz per gli studi pionieristici della finanza che contribuirà a rendere verità incontrovertibile la razionalità dei mercati finanziari, che sarà sancita dal Nobel a Robert Lucas nel 1995 per la sua tesi sulla finanza razionale, secondo la quale i mercati finanziari non sbagliano mai nell’allocazione della ricchezza. L’economia da scienza sociale diventa scienza esatta contro la sua natura e il suo DNA, nonostante i precedenti ammonimenti di Friedrich von Hayek che nel 1974, in occasione del Nobel, con la sua prolusione “La pretesa di sapere” metteva in guardia dall’uso esclusivo di strumenti matematici tipici delle scienze razionali in una scienza sociale come l’economia.

Dal 1991 la delocalizzazione selvaggia ha creato un mondo manifatturiero nell’Estremo Oriente, in Cina che aveva al tempo un Pil pro capite inferiore a quello del Ciad e che è poi diventata la fabbrica del mondo. In tutto questo tempo si è andato strutturando un sistema manifatturiero a elevata specializzazione con costi significativamente più bassi di quelli degli Usa e riportare indietro quella struttura in tempi brevi sembra un’impresa impossibile non solo per la ricostruzione di strutture produttive dal nulla, ma particolarmente per la mancanza di manodopera qualificata di fatto carente o addirittura inesistente.

La struttura produttiva europea, specie quella italiana basata sulle piccole e medie imprese che occupano il 92% della forza lavoro, è stata meno preda della delocalizzazione selvaggia e ha saputo mantenersi più attaccata al territorio e a una cultura del welfare di fatto sconosciuta negli Usa, la cui cultura è quella del mercato.

Introdurre ora una cultura del welfare che riporti la persona al centro degli interessi sembrerebbe perseguibile, ma in modo opposto a quello proposto da Trump, che dovrebbe non diminuire ma innalzare le tasse sui patrimoni più elevati e aumentare il sostegno alle classi medie e povere per evitare il sorgere di elevati conflitti sociali. Lo stesso Larry Fink, Ceo di Blackrock, ha proposto una redistribuzione dei redditi e della ricchezza globale per far crescere le classi più deboli e generare nuovi consumi e nuovi investitori.

Trump nella sua azione a stop and go, che lascia una debole fiducia ai risparmiatori, deve fare i conti con la dimensione del debito pubblico e la sua dinamica di crescita. Il maggiore debito comporta il ricorso a nuove emissioni di Treasury Bond che trovano però una minore accoglienza nei mercati e per questo si rende necessario aumentarne i rendimenti.

La posizione dominante del dollaro come moneta globale viene messa in discussione dalla crescita dei Brics che mirano a dedollarizzare il sistema a favore di altre valute; tutto questo porta a un indebolimento della valuta statunitense e sposta l’attenzione dei risparmiatori verso altri mercati obbligazionari che possono sembrare meno a rischio oggi, come quello italiano, che vive un momento di crescente domanda.

I Credit default swap, che sono strumenti assicurativi per gli investitori in mercati obbligazionari, sono saliti a 53 punti per gli Usa, arrivando ai livelli italiani, mentre per la Germania sono a 18 punti. Tuttavia le agenzie di rating assegnano più di due AA agli Usa, mentre lasciano anche la tripla B all’Italia, seppur con un outlook positivo.

Il rischio del sistema Usa è quello di perdere la fiducia degli investitori e soggetti importanti nel settore finanziario come Jamie Dimon di JPMorgan e Ray Dalio, gestore di uno dei più importanti hedge funds, cominciano ad allertare il risparmio definendo orizzonti temporali ristretti per il risanamento della finanza Usa, così come stanno facendo i media americani come Wall Street Journal e Bloomberg, mentre quelli italiani sembrano ignorare colpevolmente il problema.

Trump ha di fronte un problema enorme e sembra avere definito le giuste finalità, ma i mezzi usati risentono ancora troppo della cultura che li ha portati a questa fase di decozione e come dice il vecchio adagio ” presto e bene non si conviene”. I mezzi vanno ripensati rispetto ai fini se ricorrono allo stesso modello culturale che ha creato questa potenziale fase di dissesto, come diceva Einstein, che sottolineava il pericoloso errore di rimanere fermi di fronte ai cambiamenti proponendo le stesse ricette che hanno creato il problema.

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Tags: Donald Trump

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