Come in tanti Paesi africani, la situazione politica in Centrafrica, guidato dal presidente Faustin-Archange Touadéra, è quello che è; la povertà è dilagante, la speranza di un futuro migliore, soprattutto nelle zone più sperdute, è veramente difficile da realizzare. Eppure la comunità cristiana ricomincia da lì: dalla Pasqua, dalla Risurrezione che illumina l’esistenza di ogni uomo, dal Giubileo, che non per niente pone l’accento proprio sulla speranza.
Lo racconta Aurelio Gazzera, vescovo coadiutore di Bangassou, che anima una comunità fatta di parrocchie anche molto lontane tra di loro, alcune delle quali ancora chiuse per la presenza nella zona di gruppi ribelli. Nessuno, però, viene dimenticato, neanche i cento detenuti della prigione di Bangassou.
Il Centrafrica è uno dei Paesi più poveri e dimenticati del continente africano. Com’è la situazione ora?
Da una parte c’è il presidente, che due anni fa è riuscito a far passare una nuova Costituzione per cui si ripresenta alle elezioni per un terzo e altri mandati. L’ha fatto imponendosi un po’ a tutti: ancora adesso ci sono arresti, c’è molta tensione con l’opposizione. Non è un periodo molto sereno e, in più, sparse qua e là nel Paese, ci sono ancora bande armate che uccidono a loro discrezione. Le zone un po’ più calde sono Bangassou e Bouar, nel sud-est e nel nord-ovest.
Mancanza di sicurezza significa proprio che bisogna stare attenti a girare per le strade?
Sì, perché c’è sempre la possibilità di ritrovarsi in mezzo a un attacco. Dal punto di vista economico, intanto c’è una missione del FMI che ha sospeso i pagamenti dei crediti concessi allo Stato, chiedendo maggiore chiarezza nelle politiche governative. La questione sul tavolo riguarda l’appalto dato a una ditta che importa carburanti, che si sospetta venga usata per nascondere pagamenti agli ex Wagner. Il carburante in Centrafrica viene venduto ai prezzi più cari del continente.
Il presidente, quindi, è legato comunque ai russi?
Diciamo che gioca un po’ con gli uni e con gli altri: sta con la Francia, poi le dà contro, quindi si rivolge ai russi. In più, vanno considerati i tagli a USAID decisi dall’amministrazione Trump: ci sono già molte ONG che hanno chiuso o che hanno ridotto moltissimo i loro dipendenti. Un problema ulteriore che complica la situazione.
Le ONG rispondono ai bisogni primari delle persone?
A dir la verità, rispondono ai bisogni di loro stesse e poi qualche goccia arriva anche agli altri. Da una parte un minimo di controllo in questo ambito non fa male. Certo, c’è chi ci perde, soprattutto i più poveri, chi, per esempio, percepiva un salario perché lavorava per le ONG medesime. C’è un impatto sulla popolazione: ci sono diverse persone che lavorano per loro, tra l’altro con salari piuttosto alti.
Politicamente il Centrafrica è un’autocrazia, la democrazia è solo apparente?
C’è il presidente con il suo clan, che però non ha portato a nessun miglioramento per la popolazione negli ultimi dieci anni. Il Centrafrica resta uno dei Paesi più poveri: è veramente tra i più disastrati. I problemi della gente sono soprattutto di sopravvivenza, cibo e lavoro. In particolare, più ci si allontana dalla capitale e meno servizi ci sono, meno aiuto c’è.
La vostra comunità cristiana come vive in questo contestoe?
C’è molta povertà, poco sviluppo, nessun progetto a lungo termine, però la gente, dovunque vive, si dà da fare. Ci sono poi zone dove sono ancora attivi gruppi di ribelli: noi abbiamo ancora due parrocchie che sono chiuse a causa della guerra; ci andiamo quando possiamo. Cerchiamo di fare più o meno tutto: abbiamo delle scuole, un paio di dispensari. Per Pasqua passo 15-20 giorni nella zona a est, che è un po’ più lontana; sono praticamente 500 chilometri da Bangassou. Ci vogliono 20 ore di macchina per arrivarci, perché le strade sono piste terribili.
Come si fa a far prevalere comunque la speranza in situazioni come queste, a vivere la Risurrezione di Cristo?
La popolazione è abituata da secoli alla resilienza: sono terre dove si rifugiavano gli schiavi, siamo ai confini con il Congo, con il Sudan; la gente è abituata a soffrire. Le comunità più lontane devono affrontare costi molto superiori: un sacco di cemento da 50 chili costa 75 euro, mentre nella capitale se ne pagano 15. Le persone, però, si danno da fare lo stesso: abbiamo delle comunità piuttosto vivaci, con una trentina di preti, alcuni molto bravi. Riusciamo a tenere accesa la speranza, facendo capire che l’unica speranza, alla fine, è Gesù, è Cristo che ci salva, che ci ha chiamato a questo rapporto personalissimo con ognuno di noi. In occasione del Giubileo, tutte le parrocchie sono diventate sede di pellegrinaggio. Come vescovo ci vado a celebrare una grande cerimonia, per cercare di ravvivare la fede di coloro che vivono in luoghi lontani. Le parrocchie, comunque, in questo Paese sono un grande punto di riferimento e non solamente per la fede.
Come state vivendo il messaggio di speranza che viene dal Giubileo, che occasione rappresenta per la comunità cristiana?
In questo periodo abbiamo voluto celebrare il Giubileo della Speranza in due posti molto diversi: nella parrocchia di Lanome, a 37 km da Bangassou, e nella prigione. A Lanome si sono radunati molti fedeli, con i quali abbiamo fatto la Via Crucis e tenuto un momento di preghiera molto sentito dalla gente. Nella prigione di Bangassou, invece, ci sono più di 100 detenuti, quasi tutti in attesa di giudizio. Con loro abbiamo celebrato la Bella Notizia del perdono di Dio e del Giubileo. C’è stata molta partecipazione e molta attenzione, quando ho parlato loro della parabola del Figlio prodigo. Veramente sentiamo il bisogno della Misericordia di Dio: quel Dio che sta a guardare da lontano, in attesa, e poi corre ad abbracciare quel suo figlio che se n’era andato ed è tornato.
(Paolo Rossetti)
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