“Ancora una volta non si sa cosa è veramente successo, come già accaduto in passato, ed è questo che fa aumentare la rabbia e la disperazione dei libanesi. Ancora una volta il Libano è ferito a morte e non si saprà mai cosa è successo davvero”. A parlare è Michele Citton, originario di Padova, dal 2015 in Libano dove lavora in un centro di ricerca dell’Università americana di Beirut. Il giorno della terribile esplosione al porto di Beirut era tornato fortunatamente a casa prima, altrimenti si sarebbe trovato nei suoi uffici investiti dall’esplosione. Lui, la moglie libanese e il figlio di un solo mese vivono poco fuori la capitale, a Beit Mery, “a otto chilometri dall’esplosione ma sembrava fosse stata a duecento metri da casa”. La paura adesso, ci ha detto, è che il Libano possa scivolare di nuovo nella guerra civile: “Hezbollah ha detto che tutte le offese dei manifestanti nei confronti del Mullah non resteranno impunite”. Che l’esplosione sia stata provocata apposta per far scivolare il paese nel caos totale?
Lei vive in Libano da alcuni anni, di cosa si occupa?
Sono qui dal 2015, lavoro in un centro di ricerca dell’Università americana di Beirut e mi occupo principalmente di ambiente e sviluppo.
Come è la situazione al momento? Ci sono ancora manifestazioni di protesta contro il governo?
Al momento siamo nel lockdown dichiarato venerdì scorso, i casi sono infatti saliti a 400. Le ultime grandi manifestazioni ci sono state durante il weekend, adesso prevale la paura del virus, però il malcontento generale è sempre vivo.
Diversi ministri hanno dato le dimissioni. Che previsioni si fanno?
C’è molta paura per quello possa verificarsi da parte di Hezbollah. Hanno rilasciato una dichiarazione dicendo che tutte le offese verso il Mullah non passeranno impunite. È una fase molto incerta, non si sa se stiamo andando verso una guerra civile o se ci sarà una soluzione di buon senso, con un governo tecnico, ma realmente tecnico, cioè con personaggi completamente indipendenti dai partiti. Stiamo aspettando di capire.
Dove si trovava al momento dell’esplosione?
Per fortuna ero rincasato un’ora prima, ho vissuto quel momento da casa che dista qualche chilometro da Beirut. Mia moglie stava allattando, abbiamo un figlio di un mese, ma è stato spaventoso anche da qui. Sembrava fosse esploso qualcosa a duecento metri, non a otto chilometri.
Immagino la paura di quei momenti.
All’inizio pensavamo fosse un terremoto, poi abbiamo sentito degli aerei, abbiamo pensato a un bombardamento e ci siamo rinchiusi in casa. Alla prima esplosione ero uscito fuori a vedere, poi mi hanno richiamato e c’è stata la seconda esplosione. Ci siamo messi in contatto su whatsapp con amici e colleghi per sapere come stessero e che cosa fosse successo e pian piano abbiamo capito. Ci siamo chiesti se l’esplosione potesse aver provocato una diffusione di gas tossici, siamo tornati all’università a fare esami su esami, una gran corsa per capire come muoversi, non è stato facile.
Tra le vittime ci sono stati suoi conoscenti?
Nessuna vittima, molti amici con danni agli uffici inclusi gli ospedali dove conosciamo molta gente.
Molti libanesi pensano di lasciare il loro paese vista la situazione; voi cosa pensate di fare?
Al momento non stiamo decidendo nulla, continuiamo a lavorare, prenderemo una decisione più avanti.
A parte chi manifesta, come vive la gente comune questa situazione?
C’è molta amarezza e tristezza. Ma c’è anche gente che cerca di aiutare come può, ci sono centinaia di gruppi di volontariato che stanno cercando di coordinarsi come possono. Da una parte c’è una solidarietà molto forte, dall’altra una rassegnazione dettata dal fatto che il Libano ha preso una scossa troppo forte e non si sa se riuscirà a rialzarsi.
Lei pensa che l’esplosione sia stata causata apposta per far precipitare il Libano nel caos?
È una domanda chiave ma non lo sapremo mai e questo è quello che fa più arrabbiare la gente. Ancora una volta il Libano è ferito a morte e sembra che non si saprà mai come è andata. Non si capisce infatti come ha fatto a crearsi un incendio in quell’area dove si trovava esplosivo stoccato ormai da anni.
(Paolo Vites)