Entrare in Myanmar dopo il terremoto non è possibile, neppure per documentare la tragedia. Serve un patto tra Usa, Ue, Onu e Asean contro la giunta
Caro direttore,
a distanza di pochi giorni torno a voi. Ora il disastro si evidenzia con sempre maggiore chiarezza. Nulla di quanto vi ho scritto viene smentito: è una catastrofe.
Vi avevo anche esplicitamente detto che gli aiuti umanitari, sia per l’immediato che per la ricostruzione, permanendo questo quadro politico, sono inutili. È un’opinione assolutamente personale, ma io non affiderei a questa gente neanche il triciclo usato di mio figlio.
A conferma di ciò mi giunge una telefonata di un amico giornalista thailandese che, volendo venire a documentare la situazione, mi dice che la sua richiesta di visto d’ingresso in Birmania verrà esaminata fra tre mesi. Non bisogna essere dei geni per capire che il senso è: “Non vogliamo avere testimoni internazionali su quanto accade in casa nostra”.
Un qualsiasi giornalista italiano (anche se resuscitasse Oriana Fallaci) forse potrebbe entrare in Myanmar dalla Thailandia o dal Bangladesh nelle regioni controllate dalle milizie etniche, anche se le frontiere sono formalmente chiuse. Ma non riuscirebbe ad arrivare a Mandalay o Rangoon: non ci sono più vie di comunicazione interne perché i ponti sono crollati, le strade sono disseminate di mine, non c’è benzina e l’autista della vettura può “venderti” all’esercito o a una qualche banda.
Allora l’unica possibilità è che l’ONU, l’UE, gli USA, l’ASEAN dichiarino che nessun aiuto verrà inviato se i militari non se ne vanno. So che questa mia posizione è divisiva e, poiché richiede tempo, ha dei costi umani importanti. Ma inviare aiuti non servirebbe altro che a rafforzare il potere dei militari e a dare un riconoscimento implicito a un governo che invece non è riconosciuto da quasi nessuno Stato (non ci sono ambasciate ma incaricati d’affari).
La drammaticità della situazione consente però azioni che fino ad una settimana fa erano impossibili: se i soggetti sopra citati mettono intorno a un tavolo le forze d’opposizione, garantendo aiuti ed endorsement, si libera il Myanmar dal troppo stretto abbraccio con la Cina che qui a nessuno piace. Non si tratta di escluderla, perché nei fatti è la potenza economica e militare dell’area.
Utopia? Sicuramente non è facile. Ma mi sembra più fattibile e logico che non annettersi la Groenlandia e il Canada!
C’è poi sempre la strada “finanziaria”: se Singapore (per altro, nella black list finanziaria) blocca i conti dei generali birmani, il gioco è fatto. Ergo: se si vuole – ora più che mai, per questa emergenza – ci sono gli strumenti per indurre al ritorno della democrazia.
La domanda è: si vuole questo oppure tutto sommato, nel Grande Risiko mondiale, fa gioco avere una situazione di instabilità che consenta traffici di droga, pietre preziose (rubini, zaffiri, ecc.), terre rare, legname pregiato (teck), petrolio, gas, ecc. fuori da ogni controllo?
Il modello a cui tendere, pur con le sue imperfezioni, è la Thailandia. L’esercito ha una forza notevole ma non assoluta. È un Paese quasi occidentale (libera iniziativa, libero scambio, libertà religiosa), certo con rischi di annichilire culture minoritarie, ma sempre meglio della legge dettata dai bombardamenti.
L’alternativa? Qualcuno – su suggerimento – farà un’operazione che in gergo si chiama “window dressing” (abbellimento della vetrina). Cosa intendo? Un altro generale (amico degli amici) farà un nuovo colpo di Stato (concordato) che consentirà ai vertici di godersi la pensione e dirà: “Loro erano cattivi, noi siamo i buoni”. Qualcuno magari ci crederà, ma la realtà è che l’esercito (uno Stato nello Stato) continuerà a controllare tutto. Questa è un’eventualità che non è lontana. E sarebbe la beffa nel dramma. A Roma dicono “Ha da finì”.
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