Caro direttore,
se le scrivo è perché sono miracolosamente salvo. Ieri, intorno alle ore 13, un terremoto devastante (magnitudo 7.7 gradi della scala Richter) ha colpito la Birmania. L’epicentro è a circa 10 km da Mandalay ma la scossa, data l’intensità, si è sentita in tutto il Paese e in quelli circostanti. Per dare un’idea: ha una potenza maggiore di qualsiasi terremoto abbia mai colpito l’Italia.
Le vittime sono migliaia, gli ospedali sono traboccanti di feriti. Tutto ciò si inserisce in una situazione sanitaria già allo sbando, come più volte vi ho raccontato. Gli ospedali già non avevano nulla: i farmaci (anche i più semplici) dovevano essere acquistati dai pazienti (chi poteva), le sale operatorie cadono a pezzi, non ci sono neanche le lenzuola per i letti dei reparti! In una situazione già disastrosa, questo evento è un dramma nel dramma.
Il Paese è di fatto isolato dal mondo.
Il governo dei generali ha dichiarato lo stato di emergenza e chiede aiuti umanitari. Il punto è che, vista la situazione politica, non vi è alcuna certezza che – anche qualora arrivino – non vengano magicamente attratti nelle disponibilità dell’esercito golpista. Gli unici soggetti che hanno un minimo di rete sul territorio sono la Caritas, le Chiese protestanti, alcune ONG (tra cui l’italiana AVSI) e l’UNICEF.
Ma la domanda è: anche in questo caso, quanto verrà inviato arriva nelle loro disponibilità o verrà confiscato dai militari? L’inevitabile presenza di operatori stranieri verrà accettata dai militari che hanno sempre rifiutato questa possibilità? Nel recente passato, quando ci fu lo tsunami, pur di non avere osservatori stranieri la Birmania dichiarò che non c’erano state vittime!
La terra sta ancora tremando. Tutti noi siamo in strada. C’è un fortissimo odore acre dovuto agli incendi che sono scoppiati. Non so cosa mangeremo stasera e nei prossimi giorni. Questo nell’immediato, senza pensare che da maggio in poi c’è la stagione dei monsoni, che vuol dire piogge su piogge.
Una cosa è certa. La Birmania non è nuova agli eventi sismici. Molti ne sono accaduti nel secolo scorso, ma mai così forte. Mi dicono si tratti di quella che viene chiamata la “faglia di Sagaing”, che è la vasta regione sulla riva opposta dell’Irrawady rispetto a Mandalay. Nonostante questa “familiarità” con gli eventi sismici, gli edifici, data la povertà, sono costruiti come si può. Pochi gli edifici in cemento armato. E quando ci sono, è poco il ferro inserito nelle strutture portanti.
Prova ne sia che sono crollati i ponti sulla nuova autostrada che collegava Rangoon e Mandalay. Questo dice anche che ora le comunicazioni via terra – già pericolose, per la presenza di mine – sono impossibili. Di nuovo: un dramma nel dramma. Tutto ciò in un Paese già devastato da 4 anni di guerra civile. È una catastrofe.
La Caritas si è messa in moto immediatamente e la diocesi di Mandalay, la più colpita (si estende anche in Sagaing) è in prima linea. La domanda delle domande è: come poterla aiutare? Potranno fare quello che necessita o dovranno sottostare agli ordini dell’esercito?
Un popolo già calpestato nella sua dignità dai militari, oggi subisce anche la violenza della natura.
(Un lettore dal Myanmar)
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