I dazi del 20% di Trump sui prodotti UE preoccupano Centromarca. L’agroalimentare ne soffrirà parecchio. Ora dobbiamo guardare a nuovi mercati
Un dazio unico del 20% sui prodotti che vengono importati dall’Unione Europea, del 25% se si tratta di auto che provengono dall’estero. L’annuncio di Trump è arrivato e ora molte economie mondiali, dalla Cina all’India, all’Australia, alla UE, devono fare i conti con tariffe maggiorate per vendere i loro prodotti negli Stati Uniti. Il peso dei dazi, spiega Vittorio Cino, direttore generale di Centromarca, l’Associazione Italiana dell’Industria di Marca, si farà sentire, per esempio, nell’agroalimentare, anche se bisognerà valutarne l’effetto prodotto per prodotto.
Il mercato USA, d’altra parte, è il primo punto di riferimento per le aziende italiane di questo settore. Di certo, qualunque soluzione si troverà al problema dei dazi, questa vicenda ci ha già insegnato una cosa: sarà necessario diversificare i mercati, non pensare solo ai Paesi occidentali, ma anche ad Africa, Asia, America Latina. In generale i dazi colpirebbero l’attità di oltre 3mila aziende italiane per 64 miliardi complessivi di export. Secondo Confindustria incideranno per lo 0.6% sul nostro Pil.
Cosa rappresenta il 20% di dazi per il nostro export in America?
Dobbiamo fare i calcoli settore per settore, ma il 20% è preoccupante per tutti. La percentuale è unica, ma l’impatto non sarà lo stesso su tutti i prodotti: quelli che costano meno subiranno maggiormente il peso dei dazi. Quanto più i prodotti sono a buon mercato, tanto più i dazi sono preoccupanti. Il tema è che sul largo consumo rischiano di fare più male, perché parliamo di prodotti alla portata di tutti e il prezzo è un elemento considerevole nella decisione dell’acquisto. Nel settore agroalimentare dovremo comunque fare una valutazione caso per caso: il vino è una cosa, l’olio un’altra, il formaggio un’altra ancora.
I dazi uniformi rischiano di danneggiarci ancora di più rispetto a quelli mirati prodotto per prodotto?
Non distinguono le caratteristiche delle diverse categorie e per questo ci preoccupano molto. Il 20% sul vino, per esempio, vuol dire già molto. Per questo prodotto complessivamente si parla di 6 miliardi di export, di cui una parte importante è realizzata nel mercato statunitense. Ma è molto in generale su tutto l’agroalimentare. Le stesse considerazioni, infatti, si potrebbero fare per i latticini, i formaggi, la pasta, i pomodori. Le aziende italiane sono medio-piccole e quindi hanno una scarsa marginalità, non possono assorbire tutto l’aumento: il rischio è che il prezzo finale sul mercato americano aumenti in ugual misura, con tutte le conseguenze del caso. E per il nostro settore agroalimentare quello americano è il mercato numero uno.
Quali sarebbero gli effetti immediati?
La prima cosa da considerare è l’aumento dei prezzi. Secondo una ricerca che abbiamo commissionato a Nomisma, per i consumatori americani il prezzo e la qualità incidono in egual modo nella scelta dei prodotti italiani. Rispetto al brand italiano, il rapporto prezzo-qualità è fondamentale: vuol dire che all’aumentare del prezzo i consumatori USA si rivolgeranno altrove. A questo si aggiunge l’effetto inflazionistico, perché l’aumento dei prezzi crea inflazione, quindi erosione del potere d’acquisto e minore disponibilità da parte di cittadini e famiglie ad acquistare prodotti, sia negli Stati Uniti che in Italia. Terzo elemento, di cui oggi poco si parla, è l’effetto moltiplicatore sul prezzo delle materie prime.
Cosa potrebbe succedere sotto questo aspetto?
Faccio un esempio: prendiamo il più grande produttore italiano di frutta secca. In questo campo noi importiamo tanta materia prima, noci e nocciole, dalla California. Se scoppia la guerra dei dazi, aumenterà anche il prezzo della materia prima importata in Italia. E se di conseguenza aumenteremo del 20% il prezzo delle nocciole americane, sicuramente gli altri competitor internazionali si adegueranno al prezzo più alto, magari ricaricando del 15%. Insomma, gli altri mercati diventeranno più competitivi, pur aumentando anche loro i prezzi. Così si ottiene una spirale inflazionistica.
Come si può reagire ai dazi americani?
Le singole aziende hanno poco da reagire, dovranno efficientare la filiera. Non sarà possibile applicare una politica uniforme per tutti, perché dipende dai settori merceologici, ognuno dei quali ha le sue caratteristiche. A livello europeo, però, sarebbe una mossa sbagliata andare in ordine sparso.
Ma l’Europa è in grado di difendere la specificità dei prodotti italiani in questo campo?
Il tema europeo non è legato alla specificità dei prodotti italiani, ma a un mercato di 400 milioni di abitanti che può agire in maniera uniforme, negoziando commercialmente con gli Stati Uniti, cercando di far capire che una guerra sui dazi alla fine penalizza tutti. Il tema è avere una massa critica adeguata per negoziare con gli americani. Se crediamo che si possa avere un corridoio privilegiato, ci illudiamo. Quello che l’industria chiede è che ci siano un coordinamento e una risposta a livello europeo.
Al di là delle contromisure sui dazi, questa vicenda cosa ci insegna?
Nel medio e lungo termine dovremo differenziare la destinazione del nostro export, cercando di penetrare commercialmente su un numero maggiore di mercati, in modo da minimizzare il rischio. In questi anni l’export italiano ha fatto enormi passi avanti, soprattutto nell’agroalimentare. Come esportatori abbiamo superato il Giappone, la terza economia mondiale: se qualcuno lo avesse detto negli anni ’80, gli avrebbero dato del pazzo.
È un export, però, che si è sviluppato in particolare nei Paesi occidentali, mentre dobbiamo pensare anche all’America Latina, all’Africa, all’Asia. Il mercato europeo è abbastanza saturo e la popolazione non cresce, anzi, tendenzialmente andrà a invecchiare e a diminuire.
(Paolo Rossetti)
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