L’Unione europea ha deciso di rispondere alla guerra commerciale di Trump approvando a sua volta dazi su 26 miliardi di euro di beni esportati dagli Stati Uniti verso l’Europa. Tra le importazioni colpite ci sono prodotti agricoli, metalli e alcuni prodotti iconici americani.
L’unica cosa certa, dopo questa prima reazione, è che ci saranno altre puntate e che dall’America arriverà una contro-reazione. È meglio quindi allargare la visuale e cercare di mettere questo conflitto nella prospettiva giusta.
L’Unione europea ha un surplus commerciale di oltre 200 miliardi di euro verso gli Stati Uniti. Tra le esportazioni europee le due voci principali sono veicoli e macchinari e poi, a poca distanza, la chimica. Il settore auto europeo vive una fase particolare con una conversione forzata all’elettrico che in America non ci sarà mai, la chimica europea patisce i rincari del prezzo del gas.
Nell’ultimo decennio l’Europa ha in parte bilanciato il proprio deficit importando gas americano dopo aver perso l’accesso a quello russo. La competizione globale per le forniture di gas è in aumento perché i Paesi in via di sviluppo aumentano i propri consumi energetici e perché il sud-est asiatico sostituisce il carbone, più inquinante, con il gas.
Gli Stati Uniti sono il più grande mercato d’esportazione dell’Unione europea. Nel breve periodo tutti soffrono per una guerra commerciale, ma la posizione negoziale di Bruxelles è fragile. Gli Stati Uniti possono assorbire i costi di una guerra dei dazi forti di risorse naturali sterminate, di costi energetici tra i più bassi dei Paesi sviluppati e di un processo di sburocratizzazione e deregolamentazione tanto violento quanto efficace. Mentre in Europa si parla di decarbonizzazione a ogni costo, l’America sposa una strategia completamente diversa.
Larry Fink, Ceo di Blackrock, il maggiore gestore di fondi al mondo, parla da ormai diversi trimestri di “pragmatismo energetico” dichiarando pacificamente che il gas continuerà a essere la base del sistema elettrico per i prossimi cinquant’anni. Al contempo osserva la natura “inflazionistica” del processo di decarbonizzazione; un bel modo di dire che l’energia verde costa di più e che questo costo è estremamente pervasivo sui beni di largo consumo. L’Europa per difendere le sue scelte energetiche è costretta a imporre dazi “green” ancora prima di qualsiasi guerra commerciale.
L’Europa non ha risorse energetiche, non presidia le sue catene di fornitura, neanche quelle green, e dovrebbe andare alla guerra con il suo principale fornitore di gas naturale oltre che suo principale mercato d’esportazione. Questa però è solo una metà del problema. L’altra è che l’Unione europea è fatta di Stati che importano ed esportano cose molto diverse. Francia e Spagna, per esempio, non hanno bisogno di importare tutto il gas naturale di cui ha bisogno l’Italia. Madrid esporta beni diversi da quelli della Lombardia.
Una guerra commerciale cruenta in cui gli Stati Uniti decidono liberamente cosa e come colpire tra le importazioni europee rischia di scavare fossati dentro l’Unione europea con Paesi che si ritrovano interi comparti affossati e altri che ne escono indenni. Se il Pil italiano andasse in rosso perché i dazi sono particolarmente dannosi non è chiaro quale sarebbe la solidarietà europea in un fase in cui lo spazio nei bilanci pubblici si restringe per far posto ai piani di riarmo.
Tutto consiglia all’Europa di arrivare a un accordo che eviti una guerra commerciale che la vede in una posizione debolissima. L’Europa dichiara la volontà di diventare una superpotenza geopolitica, ma la distanza tra l’obiettivo e la realtà è molto ampia. Tutto suggerirebbe, in attesa che i piani europei, tra un decennio, arrivino a compimento, di tenere conto della realtà attuale. La vittima di una guerra commerciale persa rischia di non essere solo l’economia europea, ma la stessa Unione spaccata dai conflitti interni acuiti da dazi e controdazi.
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