L’ultima puntata della guerra dei dazi è la minaccia del Presidente di Trump di introdurre un dazio del 200% su tutte le importazioni di vino, champagne e alcolici che arrivano dalla Francia e da altri Paesi dell’Unione europea. Questa misura, ha aggiunto Trump, sarà molto positiva per l’industria vinicola americana.
Tutto si può dire tranne che questa Amministrazione non sappia come e dove colpire un partner commerciale che aveva appena annunciato la sua reazione. Ursula von der Leyen ha voluto sottolineare in serata di essere aperta ai negoziati e che domani (oggi per chi legge) ci sarà una telefonata tra il commissario del Commercio europeo e la sua controparte americana. Ieri, come inevitabile, i titoli del settore europeo hanno chiuso la giornata in rosso dopo mesi difficili perché gli investitori hanno da subito individuato questo segmento come uno dei più fragili in uno scenario di guerra commerciale.
Certamente si può premettere, come ha fatto ieri la Presidente della Commissione europea, che i dazi sono negativi per le imprese e i consumatori e che non ci guadagna nessuno. In questa guerra di logoramento, però, la “profondità strategica” americana è molto più ampia di quella europea. Colpire con dazi del 200% il settore vinicolo francese ed europeo significa fare male davvero; il settore del cognac francese, tra l’altro, è già vittima dei dazi cinesi introdotti dopo la decisione dell’Europa di ostacolare l’importazione di auto elettriche da Pechino. Anche in Italia l’economia di alcune regioni, in primis quelle di produzioni del prosecco, uscirebbe da dazi di queste dimensioni con profonde ristrutturazioni e perdita di posti di lavoro.
Trump, per essere esatti, non parla di “Francia e altri Paesi europei”, ma di Francia e “altri Paesi rappresentati dall’Ue” (“other E.U. represented countries”). All’Unione europea quasi non viene riconosciuto lo status di “Paese”, ma quello di semplice organismo internazionale. Trump avrebbe potuto controreagire scegliendo tra un’ampia gamma di settori e industrie invece, tra tutte, ne ha scelta una che discrimina all’interno dei Paesi membri perché, per esempio, la Germania non esporta né champagne, né vino, né prosecco e lo stesso si può dire di altri Paesi.
Supponiamo per un attimo che dalle minacce si passi ai fatti, anche solo per qualche mese. In questo caso gli imprenditori dei settori colpiti aprirebbero immediatamente il confronto con il proprio Governo nazionale; a sua volta il Governo nazionale, per una mera questione di sopravvivenza, aprirebbe un confronto in sede europea con Bruxelles e poi con gli altri Paesi membri. Il fatto che l’Europa non sia uno Stato compiuto è una debolezza strutturale in questa fase di conflitti commerciali.
Il nemico esterno potrebbe compattare gli europei solo se ci fosse la determinazione e la disponibilità di tutti i Paesi membri ad attuare quel processo di unificazione che non si è fatto in tre decenni. Scommettere su questo esito è un azzardo perché è altrettanto possibile che il “nemico” esterno che scava fossati dentro l’Europa ottenga esattamente l’esito opposto. Forse è per questo che Ursula von der Leyen si è affrettata a sottolineare la disponibilità di un accordo.
Intanto, in serata, Bloomberg ha dato una esclusiva decisamente interessante. Gli Stati Uniti starebbero valutando la possibilità di lavorare con Gazprom su progetti globali per stringere i rapporti con la Russia e ottenere una pace in Ucraina. Questo, aggiungiamo noi, potrebbe porre le basi per il ritorno del gas russo in Europa e la fine dell’emergenza energetica europea. Non a caso Bloomberg mentre dà l’esclusiva riporta alcune dichiarazioni di Putin di ieri secondo cui, se Russia e Stati Uniti trovano un accordo sul settore energetico, l’Europa riceverebbe gas russo.
Non è semplice per l’Europa fare al contempo una guerra commerciale con il principale cliente e una guerra vera con il principale fornitore. Sicuramente non è facile per le famiglie europee; non c’è alcuna quantità di debito “comunitario”, in questo caso, che possa salvarle.
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