È stata una partenza. “Amichevole”, “costruttivo”, anzi di più, “un reset totale”: Donald Trump non ha sprecato aggettivi incoraggianti per commentare l’incontro a Ginevra tra il segretario del Tesoro americano Scott Bessent e il vicepremier cinese He Lifeng. Prima ancora aveva dato il suo viatico dichiarando di essere disposto a scendere all’80%, un bello sconto rispetto al 145% dal quale era partito.
Volendo evitare ogni enfasi propagandistica, quel che si può dire sui due giorni di colloqui sino-americani è che ci sono stati. Vedremo se davvero possono aprire una nuova fase come si augurano tutte le persone ragionevoli. E oggi sapremo se Wall Street, finora pessimista, ha cambiato umore.
In ogni caso, i dazi restano, l’era del libero scambio non si riapre. L’accordo raggiunto con Londra ha fatto tirare un sospiro di sollievo, perché il prelievo forzoso è stato ridotto su acciaio, alluminio e auto, non perché sia stato abolito. La Casa Bianca ha chiarito che l’aumento “universale” del 10% resta. La colomba Bessent è circondata di falchi, ma soprattutto Trump non ha intenzione di rinunciare al suo dogma ideologico, anche se appare sbagliato e pericoloso.
Di fronte a sé, a Ginevra, il segretario del Tesoro americano aveva il prototipo di alto dirigente politico cinese. He Lifeng, vecchio amico di Xi Jinping fin quando da giovani erano insieme nella provincia di Fujian, non parla inglese e non ha molta esperienza internazionale, ma “l’ultimo imperatore” gli dà fiducia. Se è chiaro che, nonostante i tira e molla e le continue docce fredde, Trump è andato troppo avanti per tornare indietro, non sappiamo a che cosa mira Xi.
He Lifeng è arrivato a Ginevra con un asso nella manica: le esportazioni cinesi calcolate in dollari ad aprile sono aumentate dell’8,1%; le vendite in Indonesia, Tailandia, Vietnam, in Europa e in Africa, hanno più che compensato il crollo sul mercato americano (-21%). Il “Liberation day” del 2 aprile ha avuto il suo effetto sull’America, ma per il momento non ha colpito la Cina, la quale, tuttavia, ha un estremo bisogno che le imprese americane continuino a investire sul proprio territorio e non decidano di tornare a casa (ammesso che sia davvero possibile sciogliere l’intricata catena del valore).
Nei giorni scorsi Xi ha incontrato i big boss di Apple, Goldman Sachs, Pfizer, Nvidia e decine di imprese radicate sul territorio cinese. He Lifeng oggi resterà in Svizzera, visiterà la Confederazione e vedrà esponenti della politica e degli affari, poi sarà a Parigi fino a venerdì e, come co-presidente del Dialogo economico-finanziario franco-cinese, avrà abboccamenti ad alto livello.
L’economia cinese attraversa una fase di seria difficoltà. La crescita, che ufficialmente è confermata al 5% annuo, secondo la maggior parte degli osservatori indipendenti è molto più bassa: 3,7% per Goldman Sachs; tra il 2,4% e il 2,8% per Rhodium Group. La Banca centrale cinese ha annunciato una riduzione dei tassi d’interesse all’1,4% e il Governo ha permesso alle banche di aumentare la liquidità.
La domanda interna ristagna e i prezzi scendono, a cominciare dagli immobili offerti a garanzia della girandola di prestiti. L’indebitamento complessivo (pubblico e privato) sfiora ormai il 300% del Pil, ma molti dati ufficiali non vengono pubblicati con regolarità (particolarmente misteriosa è la disoccupazione).
Ma nemmeno gli Stati Uniti potranno fare a meno della Cina. Trump ha concesso dilazioni ad Apple e altre grandi imprese, Elon Musk che corre in soccorso della sua Tesla ha chiesto al Presidente di tornare indietro. E adesso spunta anche la guerra del vino. L’associazione degli importatori vinicoli ha fatto ricorso alla Corte internazionale del commercio, una magistratura federale finora semi-sconosciuta (lo ammette anche il Wall Street Journal) creata nel 1980 quando la nuova globalizzazione muoveva i suoi passi, per sostituire la corte doganale.
Domani un panel di tre giudici (la corte è composta da 14 magistrati) ascolterà le lagnanze e deciderà se davvero Trump ha l’autorità per imporre unilateralmente i dazi. È una questione di principio, dunque, non di opportunità. Dei tre giudici uno è Democrat, ma protezionista, un altro è stato nominato da Obama e in teoria è liberista, sarà decisivo quindi il parere della terza giudice, Jane Restani scelta da Ronald Reagan nell’ormai lontanissimo 1983.
Certo, mettere la strategia politico-economico americana nelle mani della magistratura è un altro segno della profonda crisi istituzionale degli Stati Uniti, con il potere giudiziario spinto a una supplenza sempre più vasta, dall’immigrazione al commercio internazionale.
Se davvero a Ginevra il primo approccio ufficiale è stato una buona partenza, si entrerà nel dettaglio; è facile prevedere che sarà un lavoro lungo, un percorso accidentato dall’esito incerto. Dopo i fulmini non spunta il sereno, ma il negoziato, nei commerci, così come sulle armi o sui confini, può allontanare la guerra.
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