DECRETO CURA ITALIA E LAVORO/ Le mosse per salvare i posti e non chiudere le imprese

- Giuliano Cazzola

Con le risorse stanziate nel decreto cura Italia e il Protocollo tra le parti sociali si cercano di salvare posti di lavoro dalla crisi dovuta al coronavirus

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Il decreto legge Cura Italia varato dal Governo (nell’ambito dei 25 miliardi autorizzati dal Parlamento) per fronteggiare la crisi Covid-19 a seguito dell’estensione della quarantena a tutto il Paese, contiene -com’è naturale – molte misure riguardanti il rafforzamento delle barriere sanitarie. A leggere le norme del Titolo I (Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale) si è aggrediti dal senso di mobilitazione generale che le ispira. Vengono individuate e reperite tutte le possibili risorse umane e materiali, disponibili (non sono di certo infinite) e sono messe in campo anche conferendo poteri speciali alla Protezione civile.

Lo sforzo principale è concentrato nel reperimento (si parla addirittura di arruolamento temporaneo per gli ex militari) delle strutture e del personale: segnaliamo per inciso che le amministrazioni hanno la possibilità non solo di richiamare in servizio del personale in quiescenza, ma anche di “trattenere in servizio i dirigenti medici e sanitari, nonché il personale del ruolo sanitario del comparto sanità e gli operatori socio-sanitari, anche in deroga ai limiti previsti dalle disposizioni vigenti per il collocamento in quiescenza”, comprese ovviamente quota 100 e dintorni. Non so perché ma a chi scrive queste disposizioni hanno ricordato alcune pagine di storia della Grande Guerra: i parigini che vengono portati con ogni mezzo, addirittura in taxi, al fronte sulla Marna e i “ragazzi del ‘99” che vengono schierati sulla linea del Piave. È sufficiente recarsi in quei luoghi per accorgersi di quanto quei corsi d’acqua fossero vicini sia a Parigi che a Venezia.

Ma non divaghiamo. Il Titolo II (Norme a sostegno del lavoro) assume un significato particolare da un altro punto di vista. Quelle disposizioni – relative all’estensione della cig (attraverso la cassa in deroga), all’integrazione salariale, alla riduzione dell’orario di lavoro e all’ampliamento dei congedi parentali (vengono ampliati anche i giorni di permesso mensili, stabiliti dalla legge 104, per il sostegno ai familiari malati o con disabilità, che passano da 3 a 12. E per tutti i lavoratori della sanità, è contemplato un bonus aggiuntivo babysitter) e quant’altro, devono essere giustapposte a quanto previsto nel Protocollo sottoscritto lo scorso 14 marzo, a palazzo Chigi, dalle parti sociali, allo scopo di meglio salvaguardare la salute e la sicurezza dei lavoratori senza mettere in quarantena l’attività produttiva.

L’antica saggezza contadina non defletteva da un principio: in caso di catastrofe prima ancora che il raccolto occorre salvare le sementi, per garantire alla comunità di tornare a coltivare i campi, una volta cessato il pericolo. Le misure adottate dal Governo nel decreto servono a questo duplice e difficile obiettivo, che le parti sociali si sono prefisse di realizzare. Ed è alla luce di questa prospettiva che le disposizioni in materia di lavoro non hanno quel connotato assistenziale, pur giusto e necessario, insito in altre norme finalizzate a garantire un minimo di sussistenza ad altre categorie (come ad esempio le erogazioni una tantum a favore dei lavoratori autonomi e dei titolari di partite Iva) o altre situazioni (come le famiglie, alle prese con la gestione dei figli e non solo è previsto un congedo parentale speciale di 15 giorni o, in alternativa, un bonus babysitter da 600 euro, per un totale di 1 miliardo e 200 milioni).

Per quanto riguarda la gestione del Protocollo si hanno notizie di accordi in Fca, Electrolux, Leonardo, Alenia. Si tratta di grandi aziende. Sarà molto più complessa l’applicazione di quelle regole nelle piccole e medie aziende. Il quadro normativo cerca comunque di cogliere le necessarie esigenze di flessibilità. Infatti, previo accordo che può essere concluso anche in via telematica con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, i datori di lavoro possono avvalersi, per i loro dipendenti, di trattamenti di cassa integrazione salariale in deroga, per la durata della sospensione del rapporto di lavoro e comunque per un periodo non superiore a nove settimane. Per i lavoratori è riconosciuta la contribuzione figurativa e i relativi oneri accessori. Questo trattamento, limitatamente ai lavoratori del settore agricolo, per le ore di riduzione o sospensione delle attività, nei limiti ivi previsti, è equiparato a lavoro ai fini del calcolo delle prestazioni di disoccupazione agricola. L’accordo tra le parti non è richiesto per le imprese che occupano fino a cinque dipendenti.

Come abbiamo già ricordato ritorna in campo la cig in deroga a cui saranno destinati 3 miliardi dei 10 miliardi stanziati per lavoro e redditi (mentre vengono immessi nel fondo di integrazione salariale 1 miliardo e 300 milioni di euro). Questo strumento – ricordiamolo – fu adottato dal governo Berlusconi per affrontare la crisi del 2008-2009. Venne previsto uno stanziamento di 8 miliardi in due anni (ripartiti tra Stato e Regioni) e fu dato alle Regioni il compito di gestire l’intervento proprio per raggiungere quei settori (allora circa la metà dei lavoratori dipendenti) che non avevano copertura assicurativa. Le aziende prese alla sprovvista in un breve volger di tempo dalla crisi finanziaria, dal crollo degli ordinativi e dal rientro dalle linee di credito, poterono tirare il fiato e non essere costrette a licenziare. Allora si stimò che quella misura – pur rozza ed eccezionale, per certi versi dispersiva – aveva consentito di salvare 700mila posti di lavoro.

È bene ricordare in conclusione che nel decreto è prevista una norma che blocca sia i licenziamenti individuali per motivi oggettivi (ovvero di carattere economico), sia le procedure per i licenziamenti collettivi. Una disposizione siffatta era stata introdotta, per un breve periodo, soltanto nell’immediato dopoguerra.







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