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Home » Impresa » DECRETO RILANCIO/ L’ideologia che blocca la ripatrimonializzazione delle imprese

  • Impresa

DECRETO RILANCIO/ L’ideologia che blocca la ripatrimonializzazione delle imprese

L'articolo 26 del decreto rilancio sembra poter essere di grande aiuto alle imprese. Tuttavia sono stati posti dei limiti che sembrano ideologici

Ciro Acampora
Pubblicato 28 Maggio 2020
lavoro

Lapresse

L’art. 26 del decreto rilancio è titolato “Rafforzamento patrimoniale delle imprese di medie dimensioni”. È una norma che ha molti pregi perché risponde ad alcuni problemi annosi del nostro tessuto economico ovvero quello della sottocapitalizzazione delle aziende. La carenza patrimoniale rende le nostre imprese deboli, le espone alle difficoltà di accedere al credito e al mercato dei capitali più in generale. Con questa norma si premia il rafforzamento patrimoniale che i soci intendono o potrebbero essere indotti a deliberare entro il 31/12/2020. L’agevolazione consiste, senza entrare troppo nel tecnico, nell’attribuire al socio che patrimonializza la propria azienda un credito di imposta commisurato al proprio investimento, con un limite di investimento fissato a 2 milioni di euro. Analogamente ottiene un credito di imposta l’azienda che beneficia della patrimonializzazione.


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Com’è immediatamente rilevabile, questa è una norma di pregio e dal grande potenziale. Tuttavia, ha un limite ideologico che si ritrova in molte parti del decreto rilancio. È una norma senza una visione di lungo periodo! Tra i requisiti di accesso ve ne sono alcuni di difficile comprensione: riduzione del fatturato nei mesi di marzo e aprile del corrente anno in misura non inferiore al 33%, sono escluse le imprese senza regolarità fiscale e quelle in difficoltà. Ci sono anche altre cause ostative, ma andrebbero analizzate singolarmente per poter dare una risposta e non è questa la sede. Quello che non si comprende e come si concili la ratio della norma, favorire il rafforzamento patrimoniale, con alcuni dei requisiti di accesso individuati.


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Proviamo a fare una proposta partendo da una considerazione preliminare: quando un imprenditore decide un aumento di capitale è mosso da motivazioni senz’altro meritorie. Crede nella sua azienda, quindi vuole rafforzarla o risanarla. In ambedue i casi crede che rafforzandola potrà cogliere al meglio le opportunità del mercato o meglio affrontare le difficoltà del momento. Acclarato che il rafforzamento patrimoniale è sempre dettato da una finalità positiva andrebbe spiegato perché subordinarlo alla riduzione di fatturato verificatasi nei mesi di marzo e aprile. Che senso ha? Veramente si crede che da maggio per incanto tutto ritorni a febbraio?


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La considerazione da fare forse dovrebbe partire da un altro presupposto. L’imprenditore che investe, in particolar modo in un momento di difficoltà, merita rispetto e limitare l’accesso alle imprese in difficoltà a marzo e aprile mal si comprende. Altrettanto mal si comprende l’esclusione delle aziende che non hanno la regolarità fiscale e contributiva e l’esclusione delle imprese in difficoltà. Le nuove risorse in ogni caso andrebbero nelle aziende che, rafforzandosi, potrebbero meglio fronteggiare anche i debiti fiscali presenti nei propri bilanci. Immettere risorse in azienda significa credere nella stessa per cui perché limitare questa opportunità? Anzi, liberare questa norma da questo vincolo favorirebbe anche lo Stato che vedrebbe i suoi crediti presidiati da un’azienda più solida. Diversamente all’impresa daremo un messaggio di difficile comprensione: sei in difficoltà, non ti rafforzare anche se così facendo mi ripagheresti.


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Siamo difronte a un atteggiamento pieno di contraddizioni e senza una visione di lungo periodo. Nella norma così com’è fatta pare ci sia un preconcetto ideologico. Non si valutano i motivi che potrebbero aver determinato lo stato di difficoltà ante aumento di capitale che in ogni caso ricapitalizzando si vuole affrontare e non eludere. È utile ricordare che veniamo da un decennio difficile.

Non si comprende nemmeno la limitazione nella distribuzione delle riserve per gli anni successivi all’investimento e i vincoli alla cessione delle partecipazioni che si pongono in capo ai beneficiari delle agevolazioni previste. Porre questi limiti significa limitare le funzioni del capitale che sono: creare valore, distribuire dividendi ai soci, che altrimenti non avrebbero ragione di investire e per la cui percezione comunque pagherebbero le imposte personali; ma soprattutto limitare, anche se solo temporalmente, il trasferimento delle partecipazioni inficia la possibilità di aggregazioni future che servono per rafforzare le aziende in mercati sempre più competitivi. Qualora non si fosse totalmente d’accordo con la nostra visione si potrebbe inserire una clausola di salvaguardia che riduca il beneficio in capo al socio proporzionalmente al mancato rispetto del periodo minimo sia di possesso della partecipazione che di distribuzione dei dividendi.


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Basterebbero poche riflessioni da fare durante il dibattito parlamentare per sfrondare l’ideologia e dare alla norma quel rilancio che si vuole dare al Paese. Così operando non saremo un paradiso fiscale e non dovremmo aver paura di essere indicati come tali. Altri Paesi lo sono anche se non sono inseriti nelle liste dei paradisi fiscali.

Il decreto rilancio se vuole essere il motore della ripresa deve avere una visione di lungo periodo. Al momento, parafrasando Agatha Christie, abbiamo dieci piccoli crediti di imposta e il rischio che non ne rimanga nessuno.

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