Il ministro Nordio ha iniziato la sua intervista a Rete4 con una piccola bugia. “Non voglio e non posso parlare di vicende in corso” ha detto il Guardasigilli, ma in realtà, pur senza fare nomi, ha detto ciò che veramente pensa sul processo di Garlasco e in particolare sulla condanna inflitta a Stasi 16 anni fa. E le sue sono affermazioni di eccezionale rilevanza.
“Se uno o più giudici” queste le parole di Nordio “hanno già dubitato al punto di assolvere, non si vede come si possa condannare, questo secondo me è irragionevole e andrebbe cambiato con una riforma che noi abbiamo provato a fare e abbiamo fatto a metà”.
La questione che pone il ministro è quella del divieto per il Pm di impugnare le sentenze di proscioglimento, divieto già introdotto nel 2006 con la legge Pecorella. Intervenne in seguito la Corte Costituzionale. Il giudice delle leggi chiarì, a chi sosteneva che limitare il diritto del Pm a impugnare creava squilibrio tra i poteri dell’accusa e facoltà della difesa, che parità delle parti nel processo penale non significa necessariamente omologazioni di poteri e facoltà, e che se il diritto dei Pm a impugnare trova copertura costituzionale entro i limiti della parità delle parti, il diritto dell’imputato a impugnare trova radici solide e profonde nel diritto di difesa.
La Corte, però, a sorpresa e con una motivazione ritenuta da molti contraddittoria, abrogò la norma perché ritenne che la limitazione imposta all’accusa era troppo estesa e radicale, non sorretta da una ragionevole giustificazione e che siffatta limitazione “eccedeva il limite della tollerabilità costituzionale”.
Non è quindi semplice sottrarre ai Pm la facoltà di impugnare le sentenze di assoluzione.
Il ministro cita “una riforma che noi abbiamo provato a fare e abbiamo fatto a metà”. Quale è questa metà? Lo scorso anno è stata promulgata una legge che ha cancellato il potere del Pm di appellare le sentenze di assoluzione, ma limitatamente ai reati a citazione diretta, cioè quelli meno gravi quali la diffamazione, il furto, la ricettazione, la truffa, la minaccia e molti altri. Per ora quella riforma resiste, ma sono maturi i tempi per estenderla anche ai delitti più gravi, alle rapine e agli omicidi? E come non incorrere poi nella mannaia della Corte Costituzionale?
Ed è giusto, infine, che l’accusa non possa ribellarsi a una sentenza di assoluzione per un così grave reato, per una sentenza che ritiene essere sbagliata e frutto di un errore del giudice di primo grado? E inoltre, perché vietare all’accusa di appellare una sentenza di assoluzione per una brutta truffa o un furto milionario, e non invece per una rapina? Sono domande cui dovranno rispondere i giuristi.
Ma il caso di Garlasco è ancora diverso. Stasi è stato assolto sia dal giudice di primo grado, sia da quelli di appello (in seguito, su ricorso del Pm, la Cassazione annullò i proscioglimenti e poi arrivò la condanna). Si era quindi in presenza di due sentenze – la prima emessa da un giudice monocratico, ma la seconda pronunciata da un collegio composto da otto magistrati, due togati e sei popolari – che valutarono le prove a carico di Stasi insufficienti per dimostrarne la colpevolezza.
Forse bisognava fermarsi lì. Forse la riforma che auspica Nordio potrebbe stabilire proprio questo principio: che di fronte a due sentenze di assoluzione ci si debba fermare e l’accusa non possa più proporre impugnazione, perché una terza decisone difforme snaturerebbe irrimediabilmente un principio cardine del nostro sistema e cioè la responsabilità dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio: se ben due autorità giudiziarie ritengono insufficienti le prove di colpevolezza è evidente che sussiste un ineliminabile dubbio che l’imputato abbia commesso il reato.
Ma Nordio non può lamentarsi dell’attuale compendio normativo che regola il regime delle impugnazioni penali e limitarsi ad auspicare i necessari interventi correttivi. Lui è il ministro della Giustizia: se non metta mano lui alla riforma, chi lo deve fare?
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