Caso Garlasco: se Stasi è innocente, la giustizia ha fallito. Nuove indagini dopo 10 anni rischiano di travolgere verità e diritti.
“Mi sa che abbiamo incastrato Stasi”. La notizia di questo sms, attribuito a Paola Cappa, sorella gemella di Stefania, le cugine di Chiara Poggi mai indagate, getta altra benzina nel crescendo, non solo mediatico, del caso giudiziario riguardante il delitto di Garlasco. Quello che sta accadendo a Garlasco è l’ennesimo episodio che deve farci riflettere sulla giustizia. In carcere c’è un condannato in via definitiva – Alberto Stasi – per un omicidio commesso oltre 10 anni fa e, nel frattempo, proseguono le perquisizioni e gli accertamenti su altri soggetti che potrebbero essere coinvolti.
E non si tratta di complici. L’ipotesi accusatoria che viene fuori dalle indagini è che potrebbero esservi autori materiali completamente diversi da chi è stato condannato. La cosa è di una particolare gravità, perché ci racconta di un sistema che non è in grado, con le sue regole, di giungere a un accertamento definitivo neppure dopo cinque gradi di giudizio. E questo nonostante alcuni degli elementi oggi ricercati fossero probabilmente disponibili o reperibili da parte degli inquirenti che si occuparono del caso anni addietro.
Su queste pagine abbiamo spesso commentato di innocenti che hanno passato in carcere decine di anni per poi essere scarcerati, imprigionati per le attività non sempre corrette di chi svolgeva le indagini. Non si tratta di errori giudiziari, bensì di vite distrutte e sacrificate sull’altare di un sistema che non accetta ancora l’idea che l’accertamento della verità e la colpevolezza processuale sono due facce di una stessa medaglia.
I fatti che emergono dalla stampa, con sms recuperati anni addietro o ricerche dell’arma del delitto teorico in un canale dopo oltre dieci anni, sono frutto anche di una grave pressione mediatica e istituzionale che non giova sicuramente a nessuno. Non giova a chi sta subendo oggi questi accertamenti forsennati e non giova neppure a chi è stato condannato in via definitiva.
Quel che serve è molta prudenza e molta chiarezza, perché qui si rischia di arrivare al collasso definitivo del sistema giustizia, che non è stato in grado di dare un colpevole certo alla vittima di un omicidio gravissimo, se verrà confermata la tesi che Stasi è innocente, ed al contempo ha consentito ai veri autori materiali di quelle condotte di farla franca. La giustizia, di per sé, si dimostra vulnerabile e manipolabile; soprattutto, trasmette l’idea di accertamenti fragili e a volte preconcetti.
La pressione mediatica e l’esposizione degli inquirenti ha creato anche una sorta di meccanismo perverso, per cui non conta che le indagini siano fatte bene, ma che venga dimostrata la tesi di chi le porta avanti, perché così si fa carriera, si finisce sul giornale in fretta, si ottiene riconoscimento sociale.
Purtroppo, questo meccanismo è destinato ad amplificarsi nell’era dei social network, manipolando ogni cosa. Garlasco fu il primo caso di delitto in cui l’utilizzo del web fu uno degli elementi che connotarono il profilo psicologico di chi è stato condannato in via definitiva. Il fatto che su un suo pc ci fossero file con materiale pornografico catalogati rappresentò soprattutto la scoperta che dietro la faccia di un bravo ragazzo si poteva celare un teorico perverso; ma quel perverso, forse, eravamo tutti noi che stavamo scoprendo, in quello scorcio del lontano 2007, il mondo senza regole di Internet.
Nell’immaginario collettivo, il bravo ragazzo non esisteva più e c’era solo una personalità occulta e indecifrabile, un personaggio perfetto a cui addebitare un fatto così truce come l’assassinio della propria fidanzata.
Le sentenze ormai sono definitive e nulla dovrebbe essere concesso a chi mette in dubbio il contenuto di quegli atti in un sistema che si ritiene spesso, a torto, infallibile. Ma le draghe che hanno ritrovato un vecchio martello in un canale, i periti informatici che forsennatamente scaricano dati dai cellulari di persone che gravitavano attorno alla vittima, il recupero di materiale presso l’abitazione di altri soggetti, così come l’ascolto di un testimone che avvalora l’ipotesi di un teorico omicida diverso da quello condannato, ci dicono che forse questo sistema deve cambiare.
Non possiamo permetterci di tenere in carcere un innocente, qualunque sia il reato, e non possiamo permettere alla giustizia di arrivare con decine di anni di ritardo; non possiamo accettare che la carriera di chi indaga possa essere inficiata dall’aver o meno mandato in galera qualcuno. Forse è arrivata l’ora di avere una vera e propria polizia criminale specializzata, che sappia intervenire in casi come questo, piuttosto che affidarsi a qualche procuratore di provincia che, di fronte al clamore mediatico che un certo caso suscita, si avverte investito del ruolo di inquisitore piuttosto che di gestore della vita di persone innocenti fino a prova contraria.
La soluzione potrebbe essere, forse, quella di centralizzare sempre di più le funzioni ed evitare che vicende delicatissime e gravi come questa possano finire nelle mani di chi non ha l’esperienza per poterle affrontare.
Soprattutto, questo caso ci dice ancora una volta che la magistratura è in grande difficoltà. Lo è perché si è dimesso il vice procuratore nazionale antimafia; perché Palamara, nonostante il pentimento, non ha potuto cambiare le regole del gioco; lo è perché le guerre per il potere all’interno della magistratura sono più vive che mai.
Il caso di Garlasco ci sta mettendo davanti a un ripensamento meritorio, se meditato e profondo, ma al contempo scuote le fondamenta di ogni certezza nel diritto, se ben cinque sentenze rischiano di finire al macero per un sms non letto 10 anni fa, o per qualche testimone non ascoltato, o per le diverse incongruenze che le stesse sentenze mettevano in evidenza, nonostante arrivassero alla condanna.
Dobbiamo prendere atto che la crisi del sistema democratico sta travolgendo anche le istituzioni che quel sistema dovrebbero proteggere; alle quali, probabilmente, va affidato un nuovo compito e nuovi poteri, ma anche nuovi limiti. Nessun magistrato può sentirsi infallibile o la personificazione fisica della Costituzione, come pretenderebbero alcuni procuratori della Repubblica; ma dobbiamo pretendere l’obbligo che agiscano con riservatezza e in piena coscienza.
Se non riusciremo a rimettere nei binari giusti il potere giudiziario, che appare ancor più fragile proprio in questi momenti, noi tutti cittadini dobbiamo prendere atto di essere sottoposti a meccanismi infernali, per i quali rischiamo o di andare in galera per decenni per fatti mai commessi, o di essere sottoposti a nuove indagini dopo decenni.
Perché qui non è in dubbio che, comunque vada, sarà un disastro. O Stasi è innocente e gli altri colpevoli, e quindi abbiamo per anni sottratto la vita e la dignità di una persona, o stiamo infliggendo una tortura a degli estranei ai fatti, totalmente innocenti, e che appaiono oggi, secondo la stampa, già colpevoli ben prima del processo.
Ci sarà ancora qualche settimana per arrivare a qualche conclusione, ma la pressione degli inquirenti e della stampa su questo caso è enorme ed il rischio che si commettano errori di giudizio, in un senso o in un altro, è drammaticamente immanente; e, senza equilibrio e sobrietà, difficilmente si potrà evitare di commettere l’errore più grave di tutti: sacrificare la vita di un innocente, sbattendolo in carcere senza che vi sia una certezza assoluta che sia colpevole.
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