Nonostante il rilevante peso politico delle dirompenti dichiarazioni del sottosegretario Delmastro – che in un colloquio con un giornalista del Foglio ha demolito la riforma sulla separazione delle carriere, rafforzando al contempo i timori palesati dai suoi oppositori circa la sottoposizione del pm all’esecutivo – ciò che da giorni mediaticamente sta imperversando è la riapertura del caso Garlasco. Come scritto da Aldo Grasso, è ricominciato il “Garlasco Show”, con la sua compagnia di giro – composta da consulenti informatici, medici, accusatori e difensori di professione o per hobby – pronta a rientrare in scena.
Senza entrare qui nel merito della vicenda, qualche riflessione merita di essere approfondita. La prima attiene senz’altro al ruolo, del tutto deprecabile, giocato dalla tv e dai media in generale in questa vicenda, a partire dalle indagini iniziali, passando alla sentenza finale per poi arrivare all’attuale fase di riapertura delle indagini. Oramai da qualche anno, gli studiosi hanno preso coscienza delle indebite interferenze sul naturale svolgimento del processo che sono generate dall’esistenza dei processi paralleli istruiti in video.
In questo ambito, la più potente delle distorsioni attiene al rapporto sempre più complesso tra inquirenti e mass media, con i secondi a cui è stato concesso di spostare la soglia del rappresentabile e del visibile, mentre i primi appaiono sempre più condizionati dalla necessità di soddisfare la pressione cui sono sottoposti nella ricerca dell’autore del delitto, piegati dal terrore che altri arrivino prima di loro.
In realtà, l’orgasmo mediatico, per usare un’altra espressione di Grasso, tende a sfumare i passaggi giuridici fondamentali, alimentando una forte confusione nel cittadino lettore di giornale o spettatore che sia. Mentre inopinatamente l’immaginario collettivo è già proteso a condannare l’amico del fratello della povera Chiara Poggi, quasi nessuno ha potuto comprendere cosa sia accaduto dal punto di vista procedurale.
Il ragazzo infatti, Andrea Sempio, era stato già oggetto di una richiesta di indagini svolta dalla difesa di Stasi che tuttavia era stata archiviata; tecnicamente siamo pertanto in presenza di una richiesta di revoca del decreto di archiviazione che sembrerebbe, il condizionale è d’obbligo, essere stata stavolta formulata dalla stessa procura e che tuttavia il Gip aveva respinto. Tale rigetto è stato poi impugnato in Cassazione, che a sua volta ha accolto il ricorso, ordinando al Gip di rivalutare taluni spunti investigativi che per l’appunto in questi giorni sono in via di svolgimento.
Dal punto di vista tecnico, giova quindi chiarire, non ci troviamo in presenza di nulla di particolarmente nuovo e ben che meno si può dire che siamo prossimi alla revisione della condanna di Stasi. Per essere ancora più precisi, nel provvedimento di archiviazione richiesto nel 2020 dalla procura e accolto dal Gip (di cui per l’appunto ora si è disposta la revoca), si affrontano in oltre 20 pagine i diversi punti di cui ora si torna a parlare. Ciò che pertanto meriterebbe di essere commentata è la decisione della Cassazione, che di fatto ha consentito la riapertura delle indagini, della quale invece si è parlato pochissimo.
Una seconda riflessione attiene alla presa d’atto che Garlasco è solo l’ultimo caso di cronaca che sembra non avere fine. Ciò che può apparire normale per il circo mediatico, non lo è affatto per gli addetti ai lavori. Tutti gli studenti di giurisprudenza sono stati formati al principio in virtù del quale una sentenza definitiva rappresenti una fortezza invalicabile. Tuttavia, negli ultimi anni, la ricerca, certamente legittima, di garantire la rimozione dell’errore giudiziario, ha tanto visto nascere diversi strumenti processuali in grado di rimettere in discussione ciò che era oramai stato definitivamente valutato nei diversi gradi di giudizio, quanto moltiplicare il ricorso al procedimento di revisione, prima pressoché raro e ora invece all’ordine del giorno.
Certo, esiste l’obbligatorietà dell’azione penale e se una difesa, ben organizzata e con risorse economiche, presenta una denuncia, allegando consulenze sul Dna o sulle impronte delle scarpe e indicando su chi indagare, allora agire diventa un atto dovuto, con buona pace, tuttavia, di chi finisce nel tritacarne.
Ma si può andare a caccia di una verità alternativa su un omicidio dopo 18 anni in presenza di una condanna definitiva? Quello di cui parliamo non è un cold case, come ad esempio l’omicidio di via Poma. Qui, che piaccia o meno, esiste un responsabile condannato con una sentenza passata in giudicato.
Personalmente non ho mai creduto al dogma della certezza del diritto, ma tuttavia questa costante azione di rimeditazione delle vicende processuali credo che generi una certa sfiducia nel sistema e un clima di incertezza che probabilmente in questa fase storica potrebbe consentire alla politica di riaffermare quel primato perso negli anni di Tangentopoli.
La ricerca della verità non deve trovare ostacoli e non può che essere costantemente alimentata, ma al contempo si deve evitare che essa possa generare tanto strumentalizzazioni quanto spettacoli come quello cui stiamo assistendo in questi giorni. Certo, per restare a Garlasco, si è sempre detto che le indagini erano state lacunose e frettolose e d’altronde il giovane Stasi è stato arrestato e rilasciato, assolto e poi assolto e solo ancora poi condannato.
Insomma, il quadro indiziario non è mai apparso non dico granitico, ma neanche troppo solido e in molti sono convinti che quella condanna nell’appello bis sia stata più che altro il frutto di quella pressione mediatica di cui si parlava poc’anzi. Tuttavia bisogna fare anche i conti con la necessità che l’opinione pubblica abbia fiducia della giustizia.
Infine, emerge un terzo spunto di riflessione, connesso ai primi due. Fermo restando il fine nobile della possibilità di scagionare un innocente condannato ingiustamente, nel caso di specie stiamo assistendo per un verso alla completa messa in discussione delle prove scientifiche, oramai rientrate nell’opinabilità come una qualunque testimonianza; per un altro verso al ribaltamento delle precedenti valutazioni ad opera dell’organo inquirente rispetto al proprio collega precedente.
Per quanto attiene il primo aspetto, colpisce la circostanza che un noto biologo e genetista forense affermi di non avere dubbi circa il fatto che i profili genetici emersi dalle tracce di Dna intorno alle unghie di Chiara Poggi sono compatibili “per due di quei campioni” con il profilo biologico di Sempio, mentre “Stasi può essere escluso quale donatore delle tracce”, precisando che quanto affermi sia non una prova nuova ma una rivalutazione di dati già presenti nei fascicoli processuali, confermata poi ora anche da un esperto di fama mondiale.
Quanto al secondo aspetto, non di meno colpisce che, a fronte delle stesse incongruenze investigative, il procuratore di Pavia nel 2020 aveva ritenuto che esse fossero state tutte superate dalle sentenze di condanna di Stasi, mentre oggi il nuovo procuratore le valuta con attenzione, fino al punto di far proprie le argomentazioni della difesa di Stasi, sebbene cercando di non mettere troppo in discussione l’onestà dei colleghi che precedentemente si sono occupati del caso.
Ecco allora, come si accennava, che l’infallibilità dei pm che aveva caratterizzato la stagione del rigore giudiziario degli anni 90 sembra davvero che stia iniziando a cedere sotto i colpi di ciò che potremmo definire la nuova stagione del “fine processo mai”. Di fatto siamo alla terza inchiesta sulle piste alternative a quella principale arrivata a sentenza definitiva e una ulteriore domanda retorica sorge spontanea: se prima o poi essa dovesse davvero rivelarsi erronea, chi pagherebbe per l’errore giudiziario commesso?
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