Francoforte, poche settimane fa. Alla Banca Centrale Europea è da poco terminata una riunione e membri del board, economisti, funzionari e alcuni giornalisti accreditati decidono di prendersi una pausa dalla giornata di lavoro e bere qualcosa.
Si discute di crisi economica, ma anche di questioni più particolari, si parla dei singoli Stati e dei rischi nel breve termine. «C’è il rischio di una Tequila Crisis nell’eurozona, un rischio molto concreto. Il problema sono i debiti di paesi come Spagna, Grecia, Portogallo, Irlanda ed Europa dell’Est. C’è un rischio di contagio nell’area, un potenziale effetto domino che potrebbe colpire pesantemente anche l’Italia. Anzi, proprio l’Italia potrebbe diventare il nuovo Messico».
A proferire queste parole, senza quasi soppesarne o saperne l’impatto, un funzionario di primo livello. Cosa significa? Prima di tutto, spieghiamo cos’è stata la “Tequila Crisis”. Con questo termine fu denominata la grave crisi economica che colpì il Messico nel 1995 e che nacque dalla cattiva strutturazione del debito messicano, situazione che portò il paese a dovere rimborsare in un breve lasso di tempo circa 30 miliardi di dollari di prestiti giunti a scadenza in una fase economica di piena crisi.
I prestatori di fondi preferirono non rifinanziare il debito messicano, credendo quest’operazione troppo rischiosa e valutando la possibilità non remota che lo Stato centroamericano potesse defaultare da un momento all’altro, nonostante un nuovo apporto di finanze.
Questa crisi, nata in Messico, ebbe l’effetto di congelare l’intero comparto emergente. Il fatto che in soli due anni lo spread tornò sui livelli pre-crisi fu dovuto all’intervento in prima persona degli Usa che in concerto con il Fondo Monetario Internazionale, la World Bank, e in misura minore la Banca dei regolamenti internazionali, misero a disposizione del Messico un fondo di circa 52 miliardi di dollari per permettergli di superare la fase momentanea di crisi: la condizione posta fu che lo Stato centroamericano continuasse ad adoperarsi per sviluppare le riforme economiche previste dal Washington Consensus.
Ora, tornando alla previsione del funzionario della Bce, non passò inosservata la bocciatura da parte di Standard&Poor’s del debito di Spagna, Grecia, Irlanda e anche Portogallo, avvenuta pochissimi giorni fa: rating abbassati, anche a sorpresa, e timori che crescono nell’eurozona.
L’Italia festeggia la non bocciatura né a livello di outlook né di credit watch, ma forse si scorda che, Grecia a parte, le bocciature riguardano Stati a tripla A di rating o, come il Portogallo, AA-: l’Italia resta A+. Inoltre, all’asta tenutasi la scorsa settimana, la Grecia ha emesso titoli sul debito solo a tre e sei mesi: un segnale preoccupante, poiché significa che Atene non se la sente di scommettere non solo sul lungo, ma nemmeno sul medio periodo. Insomma, i prossimi tre mesi sono quelli denominati a “roll-over risk” dagli analisti: più questa situazione perdura nel tempo, peggio è.
Giova ricordare che in Messico a rendere devastante una situazione già grave fu la decisione dell’élite del paese di spostare capitali e fondi negli Usa quando si rese conto che la tempesta stava arrivando: una palla di neve che si autoalimentava e alla fine travolse tutto. «La situazione diverrà davvero seria se una banca dell’eurozona – italiana, spagnola, greca – comincerà e trasferire fondi a filiali tedesche o olandesi». Può succedere? «Nulla è da escludere, la situazione bancaria a livello mondiale è devastante e il peggio, soprattutto in Europa, deve ancora arrivare».
Tutto questo, poche settimane fa, a Francoforte. La scelta di S&P di intervenire sui rating degli Stati a noi affini (non a caso nella City e in Germania si parla di “Club Med” per determinare i paesi latini dell’eurozona) e la decisione greca di emettere titoli di debito solo a breve termine appaiono i primi, funesti segnali di questa profezia.
Eccessivo pessimismo? Aspettiamo sei mesi e vedremo.