Quello di Pascal Salin non è un nome noto. Purtroppo. Pascal Salin è professore emerito dell’Università Paris-Dauphine e, per la vulgata corrente, può essere definito un “mercatista” se non addirittura un turbo-capitalista. Ma etichette a parte, appare interessante – per meglio decodificare la situazione attuale – riproporre quanto disse nel settembre dello scorso anno nel corso di un convegno organizzato dall’Istituto Bruno Leoni di Torino e poi riproposto nel libro “La crisi ha ucciso il libero mercato” a cura di Alberto Mingardi. Eccolo.
«In effetti, cosa sono in grado di fare gli Stati? Sanno come aumentare le imposte, sottrarre agli uomini le loro legittime proprietà, creare nuove regole, aumentare la massa monetaria. Ma non abbiamo bisogno di tutto questo. In ogni intervento del G8 o di ogni altra cooperazione pubblica internazionale c’è un rischio: più le istituzioni finanziarie sono parzialmente o totalmente nazionalizzate e più la regolamentazione prevale.
E c’è pure il rischio che per salvare alcuni istituti finanziari o cercare di stimolare l’economia, troppo denaro sia emesso, rilanciando in tal modo un nuovo ciclo di crescita – illusoria – di denaro e di credito. Questo può dare il sentimento, nel breve termine, che la crisi finanziaria sia almeno in parte risolta. Ma ciò crea un rischio a lungo termine, impedendo al mercato finanziario di giocare il proprio ruolo stabilizzante e la propria funzione di finanziamento della crescita globale.
Ciò di cui ci sarebbe bisogno sono quindi essenzialmente due cose: bisognerebbe evitare di destabilizzare le politiche monetarie – al limite, sarebbe necessario impedire alle Banche centrali di creare liquidità; bisognerebbe fare il possibile affinché le persone accumulino più risparmi volontari, in particolare sotto forma di capitale di rischio, che sono il fondamento della responsabilità…
In effetti, i maggiori problemi economici del nostro tempo derivano dal fatto che le autorità monetarie hanno il potere di creare credito dal nulla – emettendo semplicemente moneta – così che una parte massiccia degli investimenti di tutto il mondo è finanziata dalle illusioni. E poiché le illusioni non possono durare a lungo, la loro conclusione si ha nelle crisi».
Queste parole sono state pronunciate più di un anno fa: cosa abbiano fatto le Banche centrali per tamponare la crisi è sotto gli occhi di tutti, l’esatto contrario di quanto enunciato dall’eretico Salin. E, infatti, la crisi è ben lungi dall’essere finita, ha intaccato i fondamentali e l’economia reale ma ha garantito un rally – illusorio – alle Borse grazie alla cosiddetta Zirp, “zero interest rate policy”, la politica di denaro a costo zero.
Sovrabbondante, pompato senza criterio, creato dal nulla e a prezzo di saldo: speculatori ed hedge funds ringraziano, tutti gli altri un po’ meno. Serve, per uscire dalle crisi, meno Stato e più mercato: questo nonostante la vulgata voglia questa crisi figlia del liberismo selvaggio. È stato invece il cosiddetto “moral hazard” a generare questa follia. L’azzardo morale altro non è che un processo secondo cui un operatore finanziario – una banca, ad esempio – agisce strutturalmente in maniera rischiosa sul mercato, scommettendo tutto sulla leva, poiché è consapevolmente certo che ci sarà un terzo soggetto che coprirà eventuali perdite e giungerà in suo aiuto – ad esempio, le Banche centrali.
Da questa pratica deriva il cosiddetto motto del “too big to fail”, troppo grandi per fallire: quanto sia costato, però, mantenere viva questa logica – ad esempio per Fannie Mae e Freddie Mac oppure Aig – stiamo imparandolo in questi giorni. Mancanza di responsabilità, nulla di più. A cui, ovviamente, va aggiunta la connaturata matrice di avidità che caratterizza i mercati: i quali, però, hanno una sorta di principio di autoregolamentazione e auto-disintossicazione. Ovvero, senza quella messe di denaro non vedremmo le Borse così liquide e pimpanti, non avremmo il Dow Jones a livelli record, non assisteremmo all’assalto alla diligenza delle commodities e all’ultima follia speculativa, ovvero fare hedging sul breve con l’oro, normalmente un bene rifugio di lungo periodo.
Ieri attraverso Cnbc il presidente di Barrick, leader nel settore dei lingotti, ha detto chiaramente di aspettarsi una svendita di massa che riporti le quotazioni sui 900 dollari l’oncia. «Acchiappali e spennali», citando uno dei motti del film “Wall Street”. A farne le spese, ovviamente, l’economia reale. Ovvero, noi.
Ieri dagli Usa sembrava giungere una buona notizia, visto che i sussidi settimanali di disoccupazione sono calati di 10mila unità a 502mila unità contro le stime degli analisti che si aspettavano una discesa più contenuta di 2mila unità. A livello continuativo i sussidi arretrano da 5,770 milioni a 5,631 milioni di unità, il livello più basso dallo scorso 3 gennaio.
Il problema è che poche ore prima della divulgazione di questo dato sia dal Wto che dal Fondo Monetario giungevano notizie di segno opposto: il primo parlavano di tasso di disoccupazione come «nuova minaccia globale», mentre il secondo annunciava una crescita dello stesso per i prossimi 10-11 mesi.
La Bce, dal canto suo, parlava di «graduale ripresa dal 2010 ma con incertezze che restano elevate»: in compenso, gli esperti della Banca Centrale Europea rivedevano al ribasso le stime sulle disoccupazione in Eurolandia per il prossimo anno. Insomma, ognuno dice la sua, ma senza alcuna certezza.
A mandare un segnale chiaro della criticità della situazione che ci troviamo di fronte ci ha pensato però Axel Weber, governatore della Bundesbank, secondo cui «è ancora troppo presto per avviare le exit strategy ma è importante non sbagliare i tempi giusti per farle partire. È ancora troppo presto per uscire dalla politica monetaria accomodante e dalle misure di sostegno all’economia. Tuttavia il momento giusto per l’exit strategy non va mancato».
«La politica monetaria – aggiungeva Weber – sarà decisiva per prevenire i rischi alla stabilità dei prezzi, quando questi verranno individuati. Vedo anche come molto importanti le misure relative ai requisiti di capitale. Queste saranno le questioni più controverse, perché avranno a che fare con la concorrenza».
Come diceva George Soros, «dobbiamo tenere a mente, a ogni modo, che i regolatori sono non solo umani ma anche dei burocrati». Ascoltando a suo tempo la lezione di Pascal Salin e dando vita, dopo seri stress test bancari, a una politica di bad bank basata sul mark-to-market calmierato dei titoli tossici non ci troveremmo in questa situazione.