Soprassiedo dal commentare i dati sulla produzione industriale italiana di giugno onde evitare di essere tacciato di essere un gufo anti-governativo e anti-patriottico: spero solo che chi siede ai posti di comando non faccia lo stesso e gli dia una bella occhiata, invece.
Detto questo, appare sconfortante rendersi conto che ultimamente anche il Financial Times ha ceduto alla tentazione di dare al pubblico ciò che il pubblico chiede. Ieri pagina 8 era monopolizzata da un articolo dedicato a Patrizia D’Addario, addirittura intervistata da Guy Dinmore per il quotidiano della City. Senza parole. Soprattutto quando la notizia di spalla, rinchiusa in un boxino di poco conto, rendeva noto che l’Ucraina lancia nuovi minacciosi segnali verso l’esterno: il governo di Kiev è infatti costretto a ristrutturare un’emissione di bond da 500 milioni di dollari, completamente coperta da esteri, fatta da Naftogaz, la compagnia statale di fornitura del gas.
Vi sembrerà cosa da poco ma questo è l’ennesimo segnale che qualcosa sta pesantemente scricchiolando in quelle lande in cui l’Europa continentale ha versato miliardi di euro sperando di aver trovato l’Eldorado e che ora invece sta per tradursi in una trappola di quelle mortali. Anche perché non è un caso che Fitch abbia recentemente abbassato il rating di Naftogaz da B a CC, segnale che qualcosa sta andando pesantemente a gambe all’aria. Ma cosa importa, vuoi mettere le dichiarazioni fondamentali di una escort di provincia rispetto alla sberla che l’Europa si prepara a prendere in faccia il prossimo autunno?
Cadono davvero le braccia. Soprattutto quando poi nella pagina successive, il Financial Times si lancia in un’analisi del flash trading, ovvero l’utilizzo di algoritmi e computer ultrasofisticati per bruciare le mosse dei mercati e anticipare le scommesse degli investitori per lucrare sul fatto di poter operare su diversa piattaforme, tra cui le cosiddette “dark pools”, ovvero quel mercato non regolamentato che vede le grandi banche d’investimento poter ottenere e utilizzare informazioni prima del cosiddetto “open market”.
Siamo alla caccia alle streghe: il flash trading, al pari degli hedge funds, ha influito in maniera minima sulla crisi e anche i complottisti che vedono le prestazioni di Goldman Sachs frutto di ultra-segreti programmi informatici capaci di muoversi sui mercati in solo 400 microsecondi dovrebbero guardare in faccia la realtà: se la gente si butta sul flash trading è perché è l’unico modo di fare quattro soldi in un mercato con book illiquidi, cash flow ridicolo e regolatori che sembrano più interessati a buttare via il loro tempo nel dettare regole ferree per la bollitura dell’acqua calda che a far ripartire un meccanismo ormai inceppato da quella vera e propria sciagura che è stata la leva di leverage, ovvero scommettere dieci volte quanto si poteva coprire a livello di reserve interne e con allegri investitori pronti a vendersi la moglie di fronte a promesse da allocchi di guadagni faraonici.
Vogliamo mettere il bando anche al flash trading? Benissimo, vendiamo un’altra bugia populista alla gente dopo quelle del divieto di naked short, misura che non ha affatto sortito gli effetti miracolosi che chi l’ha proposta voleva o sperava di ottenere. Il mondo è questo, ormai, Lloyds, banca inglese per metà nazionalizzata, butta al vento agli 4 miliardi di sterline di perdite di denaro dei contribuenti per la fogna di debiti che ha inglobato acquisendo Hbos e la Borsa cosa fa? Fa schizzare il titolo di Lloyds. Normale, in effetti: per quanto crei solo debiti, quella banca è garantita dallo Stato e non può fallire.
Prima o poi, iniezioni dopo iniezioni di denaro pubblico, ripulirà gli assets e tornerà profittevole: i geni della Borsa scommettono su questo capitalismo in salsa sovietica. E il peggio è che la gente, gli stessi contribuenti britannici che coprono i buchi di Lloyds con le loro tasse, comprano. Un cortocircuito, totale. Del quale sta beneficiando, come diciamo da almeno due settimane, la Cina,. che, silenziosa, ha creato un cuneo politico di interposizione alla penetrazione statunitense verso Est attraverso la Moldavia. Già, perché per un paese dell’Est con 4,5 milioni di abitanti e parecchi guai da affrontare era dura dire no all’offerta di Pechino: ovvero, un miliardo di dollari di prestito, pagabili in 15 anni, al tasso del 3% e con i primi cinque anni di esenzione dagli interessi. Con in più l’impegno, da parte del creditore, di sottoscrivere l’intera economia del paese, che ha un prodotto interno lordo di 8 miliardi di dollari, e un bilancio pubblico di circa 1,5 miliardi.
Puro investimento geo-politico e geo-strategico: andiamo pure avanti a fare dotte disquisizioni sul flash trading, caro Occidente, e ci sveglieremo un domani con le monete di Cina e India a fare da controvalore a metà dei contratti del mondo. L’America, salvo opzione undercover, non può fare molto, Mosca – indebolita com’è – attende e ringrazia l’amico cinese per il suo ruolo di argine alla penetrazione Usa. L’Europa, tanto per cambiare, sta zitta e si interessa della D’Addario. Financial Times in testa. Complimenti.