«La Bce deve aggiustare i tassi nel nostro interesse. L’euro è troppo caro, troppo forte e un pochino troppo tedesco. Dovrebbe essere un pochino più italiano, francese o semplicemente europeo. L’Europa è l’unica area del mondo che, dopo cinque anni della crisi, non è ritornata alla crescita». Chi ha pronunciato queste parole? Un economista eretico? Un euroscettico? Un comunista? No, il ministro dell’Industria francese, Arnaud Montebourg, intervistato dal quotidiano Le Parisien. E quelle parole pesano, hanno numeri che le confermano. Un calo del 10% del tasso di cambio euro/dollaro farebbe crescere la ricchezza francese dell’1,2%, creerebbe 120mila posti di lavoro e ridurrebbe il deficit di 12 miliardi di euro. Di più, se il calo fosse del 20%, il deficit nazionale si ridurrebbe di un terzo e nascerebbero 300mila nuovi posti di lavoro. Certo, con un euro a 1,36-1,37 sul dollaro, la gran parte dell’Europa è destinata nella migliore delle ipotesi alla stagnazione e nella peggiore, bensì più diffusa, alla recessione. Insomma, un ministro di un Paese fondatore dell’Europa dice chiaro e tondo che l’euro così com’è, non va.
A mio modo di vedere, si tratta di una notizia. Come è una notizia il fatto che l’indice Pmi flash dell’eurozona a ottobre abbia frenato a 51,5 punti dai 52,2 di settembre (il top da due anni). L’attività complessiva dell’Eurozona continua dunque a espandersi, ma decelera rispetto al mese precedente: in particolare, si registra una forte frenata per l’indice Pmi servizi che si è attestato a 50,9 punti (52,3 punti il consenso e 52,2 punti il precedente), mentre il Pmi manifatturiero è a 51,3 punti (51,4 punti il consenso e 51,1 punti il precedente). «I dati – spiegava ieri uno strategist a MF-Dowjones – sono abbastanza deludenti anche perché le aspettative erano alte e si attendeva un’ulteriore crescita dell’indice o quantomeno una conferma della crescita in Germania e Francia. Ci manteniamo sopra i 50 punti che significa espansione dell’economia, ma la discesa dell’indice sotto al consensus ha portato delusione sui mercati e ha fermato la corsa dell’euro».
Tant’è, qualche profeta di ripresa dovrà ricredersi. Ma è un altro il dato che mi interessa maggiormente, spesso misconosciuto ma decisamente importante. Ha un nome complesso, “HICP inflation and constant taxes”, ma sostanzialmente è il miglior indicatore delle distorsioni create dalle politiche di austerity – vedi aumento dell’Iva e altre tasse – e ci dice chiaramente che l’inflazione è scesa allo 0,9% a settembre, il livello più basso dalla crisi di Lehman Brothers e ben al di sotto dell’obiettivo del 2% prefissatosi dalla Bce. Insomma, l’Europa grazie alle ricette tedesche è alle soglie della deflazione in stile giapponese. E il trend si è intensificato di molto negli ultimi tre mesi, con una serie di paesi ormai con un piede in traiettoria deflazionistica: Italia, Spagna, Francia, Portogallo, Grecia, Cipro, Irlanda, Slovacchia, Slovenia, Lettonia ed Estonia hanno conosciuto cali dei prezzi.
Nemmeno a dirlo, le dinamiche del debito sono molto sensibili anche a cambiamenti minimi dell’inflazione e i paesi più a rischio siamo noi e la Spagna: un calo dell’inflazione di un punto percentuale costa infatti all’Italia un aumento del surplus di budget primario pari all’1,3% del Pil per stabilizzare il debito. Ma siccome abbiamo già un target di surplus al 5%, questo ci porterebbe al 6,3%: solo la Norvegia, che però ha il petrolio, ha raggiunto questo livello negli ultimi cinquanta anni. Ecco i risultati delle cosiddette svalutazioni interne, ovvero il taglio dei salari reali per tentare di recuperare competitività nei confronti del blocco tedesco: debito fuori controllo. In due anni la ratio debito/Pil dell’Italia è passata dal 121% al 133,3%, nonostante l’avanzo primario e un salasso fiscale draconiano. La Spagna è passata dal 70% al 94%, il Portogallo dal 108% al 124% e l’Irlanda dal 104% al 123%. Se il problema della crisi europea era il debito, temo che le ricette utilizzate non abbiano funzionato.
Siamo in pieno “effetto denominatore”, ovvero quando il debito cresce più in fretta del Pil nominale: l’ultra-austerity senza il bilanciamento di un stimolo monetario porta a questo. E il debito privato non è in condizioni migliori. La ratio di debito netto per le grandi aziende è cresciuta di 100 punti percentuali in Italia, Spagna, Francia e Portogallo da quando è iniziata la crisi e il conto è stato ancora più salato per le Pmi. Quindi, sembra paradossale ma una delle poche strade per uscire da questa logica è lasciar salire l’inflazione e con essa i consumi e i salari tedeschi. Il gap nel cambio interno all’eurozona – attualmente circa al 20% tra i due blocchi – potrà essere così ristretto senza spingere i cosiddetti periferici nella spirale deflazionistica: avendo però noi firmato come pecore il Fiscal Compact, che ci impone dal 2015 un ratio deficit/Pil non superiore allo 0,5% causa debito alto, rischiamo di essere condannati ugualmente alla bancarotta.
Qui, però, deve intervenire la Bce, visto che è suo mandato centrare gli obiettivi inflazionistici, fissati – giova ripeterlo – al 2%: l’euro è cresciuto del 9% sul dollaro da inizio anni in termini commerciali, occorre invertire questa dinamica e mantenere l’inflazione abbastanza alta per tutelare i paesi più vulnerabili al rischio deflazione. Ma provate a spiegarlo ai tedeschi e alla loro sindrome di Weimar… Ma si sa, ci sono notizie e notizie. Alcune finiscono sui giornali, meritano il titolo di testa di un telegiornale. Altre no. Della prima categoria fa parte quella in base alla quale l’Ue ha promosso la Grecia. O, quantomeno, ha apprezzato gli sforzi compiuti dal Paese in campo economico. È stato positivo infatti il quinto rapporto della Task Force per la Grecia, formata da 60 esperti inviati da Bruxelles per fornire assistenza tecnica al governo di Atene, al fine di assorbire i fondi strutturali e rimettere ordine nei progetti in cantiere. La Task Force ha riscontrato in particolare un miglior utilizzo dei fondi strutturali europei e un aumento dell’efficienza nell’amministrazione fiscale, oltre a lavori in corso per migliorare la qualità di apprendistato e formazione professionale e per attuare una strategia nazionale contro la corruzione.
Buoni progressi – rileva la Task Force nel suo rapporto – sono stati fatti in particolare per sbloccare gli investimenti infrastrutturali. Nel settore delle finanze pubbliche e del fisco, l’assistenza tecnica della Task Force è servita invece a creare nuove strutture per la gestione delle finanze pubbliche e l’amministrazione delle entrate pubbliche. Per Olli Rehn, vicepresidente della Commissione europea e commissario per gli Affari economici (oltre che nostro esecutore testamentario), «è molto incoraggiante vedere il forte miglioramento nell’assorbimento dei finanziamenti Ue da parte della Grecia, che sono una fonte essenziale per gli investimenti in questo momento». Tuttavia, Rehn ha trovato – bontà sua – il tempo di sottolineare come «mentre stiamo vedendo incoraggianti segnali di stabilizzazione dell’economia greca e ci aspettiamo una crescita positiva nel 2014, la situazione resta molto difficile per i cittadini greci e la disoccupazione drammaticamente alta».
Sui giornali, invece, non è finita un’altra notizia. Ovvero che la troika ha detto chiaramente al governo greco che se vuole vedersi sborsare la prossima tranche di aiuti deve chiudere due aziende di proprietà statale, la Hellenic Defense Systems e la Hellenic Vehicle Industry, perché a differenza di altre aziende statali di questi settori in altri paesi che generano profitti, queste drenano fondi. Ovvero, se volete i soldi dovete comprare armamenti e auto dalla Germania, magari chiedendo prestiti a Deutsche Bank per pagarli, una volta che i soldi dell’Ue saranno finiti per onorare il debito con le banche internazionali. Accidenti e pensare che qualcuno si era già anche inventato il neologismo “Grecovery” per dire al mondo che la Grecia stava uscendo dal tunnel, finalmente. Un qualcuno a cui fa comodo che non finiscano sui giornali le cifre snocciolate due giorni fa da Elstat, l’Istat ellenica, riguardo il secondo trimestre di quest’anno per il settore non finanziario dell’economia.
Ebbene, durante questo periodo il reddito disponibile per cittadini e istituzioni non-profit legate al sociale è calato del 9,3% rispetto al secondo trimestre del 2012, passando da 33,2 miliardi di euro a 30,1 miliardi, un dato dovuto alla diminuzione del 13,9% nei salari e del 12,4% dei benefit garantiti dallo stato sociale. Queste cifre fanno forse parte del “Grecovery”? C’è di più, il tasso di risparmio per queste due categorie è sceso dell’8,7% nel secondo trimestre di quest’anno, contro il -6,7% dello stesso periodo del 2012. Anche questo è “Grecovery”? Ma passiamo al governo greco, quello che l’Europa plaude per l’impegno. Bene, le necessità di finanziamento durante il secondo trimestre di quest’anno ammontavano a 14 miliardi di euro, contro i 3,8 miliardi dello stesso periodo del 2012: a cosa è dovuto questo aumento? Trasferimenti di capitale nel contesto del programma di aiuto di Stato a banche specifiche, leggi quegli istituti di credito che gli hedge funds statunitensi si stanno divorando a prezzi di saldo, salvo poi rivendere le azioni quando varranno dieci volte tanto grazie alle ricapitalizzazioni fatte con i soldi di tutti noi. Anche questo è parte del “Grecovery”?
E ancora: nel secondo trimestre di quest’anno il deficit governativo è salito al 16,6% del Pil dall’11% del primo trimestre, mentre la ratio debito/Pil ha toccato quota 169,1%, quasi i livelli precedenti alla ristrutturazione attraverso haircut per i creditori privati. È questo il “Grecovery”? Ma si sa, questi sono i prezzi da pagare per avere in cambio, nelle nostre tasche sempre più vuote, quella preziosissima fonte di sciagura di nome euro.