Ovviamente in Italia non se ne parla, ma è in atto una guerra diplomatica tra quotidiani britannici e spagnoli dopo che Jeremy Warner, vice-direttore del Daily Telegraph, ha pubblicato sul suo blog un articolo nel quale diceva chiaro e tondo che la Spagna è già oggi insolvente e che una ristrutturazione del debito è l’epilogo inevitabile di questa situazione. Apriti cielo, i quotidiani spagnoli hanno risposto tacciando il giornalista di “iberofobia” e invitando i colleghi d’Oltremanica a guardare in casa loro prima di criticare gli altri. Al netto del campalinismo, Warner ha ragione nell’avanzare questa tesi estrema oppure no? A mio avviso sì, ha pienamente ragione. E vi dirò di più, la situazione spagnola è talmente grave, quasi irrecuperabile, che non solo l’Ue ha accordato a Madrid due anni in più per rientrare nel tetto del deficit, ma, addirittura, il governo Rajoy – in caso da qui al vertice dei capi di governo di giugno non si trovasse un’alternativa per bloccare l’escalation di sofferenze bancarie ed emorraggia di credito – sarebbe pronto a imporre un controllo sui capitali, meno stringente di quello imposto a Cipro ma identico nelle finalità.
Su cosa basa le sue tesi Warner? Su un documento ufficiale e pubblico, il Fiscal Monitor del Fmi pubblicato lo scorso mese. Ovviamente il Fondo non usa il termine insolvenza, ma utilizza un elegante giro di parole per dire la stessa cosa, a partire dal dato del deficit di budget. Quest’anno è attesa una netta contrazione al 6,6% del Pil, dovuta però al fatto che i costi per il salvataggio del sistema bancario sono ricaduti per la gran parte sul dato dello scorso anno. Depurata la cifra da questa variabile una tantum e proitettata su base di puro anno su anno, il calo del deficit sottostante è infatti davvero poca cosa. E nessuna delle ricette poste in essere dal governo sembra in grado di operare in senso positivo sull’orizzonte di proiezione del deficit del Fmi, il cui termine è per ora il 2018.
Il prossimo anno il deficit sarà già tornato a salire al 6,9%, per poi scendere di nuovo al 6,6% nel 2015 e così via con limitatissimi miglioramenti: ovviamente, queste proiezioni sono basate sulle misure di austerity annunciate dal governo, non contemplano quindi scelte straordinarie e di emergenza. La situazione, poi, appare ancora peggiore se valutata su base ciclica, ovvero il cosiddetto “deficit strutturale” (il costo di finanziamento che non sparisce nemmeno in caso di ritorno alla crescita), il quale dalla previsione del 4,2% per il 2018 ha già visto un aggiustameto al rialzo al 5,7% del Pil. Da qui al 2018, quindi, la Spagna avrà il dato di deficit strutturale peggiore di tutte le economie avanzate, comprese Usa e Regno Unito.
Il ragionamento iniziale, quindi, si basa su questa ratio: quando continui a finanziarti, anno dopo anno, a tassi del genere, cosa succede? La traiettoria del debito va fuori controllo e diventi insolvente, tanto più che già oggi – ovvero al netto di quanto annunciato dal governo nel pacchetto di austerity – il debito pubblico è destinato a salire dall’84,1% dell’anno scorso al 110,6% del 2018. Nessuna delle economie più avanzate ha un outlook di peggioramento come Madrid, tanto più che anche il dato dell’avanzo primario langue. Insomma, la Spagna dovrà finanziarsi sempre di più solo per pagare gli interessi sul debito esistente, ma il Fiscal compact impone alle nazioni dell’eurozona di ridurre il loro deficit sotto il 3% del Pil entro la fine di quest’anno: certo, la Spagna insieme alla Francia ha ottenuto due anni di proroga, ma se non si inverte il trend, nel 2015 il dato potrebbre essere peggiore e il debito/Pil già sopra quota 100%.
Calcolando che il tasso di disoccupazione in Spagna è già ora sopra il 25%, appare miracolistico sperare in una ripresa ed evitare la spirale deflazionista. Per farla breve, una grossa ristrutturazione del debito spagnolo appare inevitabile e – nonostante prima l’annuncio della Bce di acquisto di bond e poi la montagna di liquidità giapponese abbiano compresso di molto lo spread spagnolo – di fatto il programma di acquisto Omt non solo non esiste ancora legalmente, ma non è nemmeno dotato di fondi per tamponare il problema sottostante, ovvero la solviblità della Spagna. Il cui debito, di fatto, è tutto in pancia alle stesse banche insolventi che rischiano di mandarla in default.
Si apre quindi uno scenario nuovo e delicatissimo per la Bce, la quale sa benissimo di avere una parte non limitata di responsabilità per quanto accaduto, avendo tenuto i tassi bassissimi nei primi anni dell’eurozona per dar tempo alla Germania di riprendersi dallo shock della riunificazione. Il risultato di questo ruolo di nursery fu una crescita a doppia cifra della massa monetaria M3 in Europa, un boom incontrollato del credito e un’alluvione di denaro a basso costo dalle banche del Nord Europa verso quelle del Sud. Il governo Zapatero, poi, ci mise del suo per porre le basi del disastro, bolla immobiliare in testa. Ora la Bce sta usando la ricetta opposta, ovvero lascia stagnare la fornitura di massa monetaria M3, portando a una contrazione deflazionaria, cui certo non si dà risposta abbassando i tassi di un quarto di punto: i tassi reali, infatti, stanno salendo.
Ecco quindi che la Spagna si trova a fronteggiare una contrazione del Pil nominale, sceso dell’1,8% lo scorso anno e uno stock di debito nazionale di circa il 320% del Pil, composto dal 212% di debito privato e dall’86% di debito pubblico più altre aree (vedi le garanzie per le emissioni bancarie). Unica nota positiva, l’export, salito in febbraio del 5% rispetto allo stesso periodo, mentre quello britannico è calato del 3,2%, sintomo che la svalutazione non sta ancora entrando a regime di effetto. Ma questo è il frutto della merkelizzazione dell’Europa, ovvero l’imposizione di standard sociali, produttivi ed economici tedeschi ai paesi del sud in cambio di aiuti europei. Guarda caso la Ford ha chiuso il suo impianto a Genk, in Belgio e sta aprendo uno stabilimento a Valencia, la Volkswagen sta investendo quasi 800 milioni di euro per uno stailimento a Pamplona dove costruire le Polo, mentre la Renault punta ad aumentare la produzione del 30% nei suoi impianti di Valladolid e Valencia da qui al 2015.
E cosa hanno accettato i lavoratori spagnoli pur di ottenere lavoro dai giganti dell’auto che chiudono in patria o altrove e aprono in Spagna? Fabbriche aperte sette giorni su sette, lavoro alla domenica senza riconoscimento dello straordinario o della festività e contratti salariali al di sotto del tasso di inflazione. Ma per la Commissione Ue il mercato del lavoro è ancora «troppo rigido», nonostante il gap di competitività spagnola per costo di unità lavorativa con l’Europa core si sia molto ridotto. E sapete perché si è ridotto? Perché 1,6 milioni di posti di lavoro a bassa produttività nel settore edilizio sono spariti, alzando il livello medio di produttività: ma quell’1,6 milioni di lavoratori a casa, cosa danno da mangiare ai figli, il dato del miglioramento della produttività?
La Spagna, inoltre, è già in deflazione. I prezzi sono calati dello 0,6% lo scorso mese, immediato riflesso dell’aumento dell’Iva (Letta prenda nota), ma il governo pare felice per aver vinto la guerra contro l’inflazione, altro esempio di germanizzazione del continente. E torniamo al dato dell’export, molto positivo, peccato che questa voce conti in Spagna solo per il 30% del Pil, contro il 105% dell’Irlanda, il 91% dell’Estonia, l’84% del Belgio, l’83% dell’Olanda, il 59% della Lituania e il 50% della Germania: insomma, chi spera in un offsetting del crollo della domanda interna, si prepari a un’altra delusione molto dolorosa.
Inoltre, questo dato appare momentaneo e ciclico, a fronte di investimenti fissi calati del 9,1% lo scorso e attesi in calo di un altro 7,6% quest’anno. Delle Pmi, poi, abbiamo parlato già molte volte, costrette a fare i conti con uno spread di 250 punti base per ottenere credito rispetto ai rivali del Nord Europa: è questo il vero spread che conta, non quello abbassato artificialmente dagli acquisti di Bce e banche insolventi.
Infine, strettamente connesso ai guai delle banche, il mercato immobiliare, con i prezzi giù del 33% dai massimi, equivalente a un -45% in termini reali: gli stress tests governativi danno come punti massimo di resistenza il 50%, quindi ormai ci siamo. In Spagna ci sono 2,25 milioni di immobili sfitti, compresi quelli in mano a costruttori e banche pignoratrici: ci vorranno almeno dieci anni per diluire sul mercato quegli immobili e venderli e alcuni analisti temono che servirà un altro calo dei prezzi del 15% per smuovere qualcosa. A quel punto, però, più di una banca sarà in default.
Che fare, quindi, di fronte a un quadro del genere? Crocifiggere Jeremy Warner per aver detto la verità che a Madrid, ma anche a Bruxelles e Francoforte, si continua a voler ignorare o nascondere? Tanto più che nei circoli finanziari si parla di necessità di ristrutturazione del debito spagnolo da mesi e con sempre più insistenza, visti anche i dati macro dell’economia. Nel suo ultimo report, Willem Buiter di Citigroup, dice chiaro e tondo che «la Spagna non vedrà la luce alla fine del tunnel per almeno altri due, tre anni», prevedendo da qui al 2014 una contrazione dell’economia pari a un altro 2,1%, mandando fuori controllo le dinamiche del debito.
L’Europa ha già vissuto due ristrutturazioni, prima Grecia e poi, in maniera differente, Cipro. La Spagna ha tentato l’azzardo di anticipare la ricapitalizzazione del suo sistema bancario – 41 miliardi di euro dall’Ue – nella speranza che per quando i problemi si fossero fatti più gravi, sarebbe già stata instaurata la cosiddetta unione bancaria europea, fondo di garanzia compreso, oltre alle regole comuni. Ma così non è e non sarà, la Germania non lo accetterà mai e quindi il precedente cipriota di prelievo forzoso e controlli sul capitale per finanziare parte del salvataggio del sistema, potrebbe divenire, magari in maniera edulcorata e politically correct, l’unica via d’uscita che la troika imporrà a Madrid per porre mano al portafoglio.
E se pensate che il cosiddetto “modello Cipro” tale non sia, date un’occhiata a quanto sta accadendo in Brasile. Lo scorso 6 maggio la Banca centrale ha reso noto di star lavorando a una bozza di proposta per futuri bail-in che impongano perdite a detentori di bond subordinati e non assicurati in caso di insolvenze bancarie, al fine di utilizzare quel denaro per ricapitalizzare gli istituti. Una mossa che comporterà un aumento dei costi di finanziamento sul mercato da parte delle principali banche, le quali saranno chiamate a offrire maggiori premi di rischio a chi investe, ma che si è resa necessaria dopo le sette insolvenze bancarie in tre anni patite dal Paese sudamericano, costate miliardi di reais al Fondo di assicurazione nazionale, il quale ha speso solo per salvare Banco Panamericano SA qualcosa come 3,8 miliardi di reais, circa 2 miliardi di dollari. Insomma, il “modello Cipro” esiste eccome e ha anche varcato i confini ell’eurozona: il messaggio è chiaro, le istituzioni e i governi non pagheranno più per i salvataggi, almeno non in toto. Tocca a voi, detentori obbligazionari o correntisti. Occhio agli estratti conto.