A che punto è la famosa Abenomics, ovvero la massiccia manovra di stimolo imposta dal governo di Tokyo alla Bank of Japan e che aveva ringalluzzito i keynesiani di tutto il mondo? Sta soltanto creando le condizioni per una bolla mostruosa. Punto. Vediamo qualche dato. In giugno le vendite interne di nuove auto, camion e bus sono scese del 15,8% anno su anno, mentre le vendite totali sono calate dell’11%, con Honda che rispetto all’anno precedente ha postato un bel -40,7%, Toyota -18,3% e Nissan -12,4%. Certo, l’Abenomics non ha come unico scopo il rafforzamento dell’economia interna, ma se anche l’export di auto vede un calo in doppia cifra, nonostante lo yen indebolito, proprio questa idea geniale non mi pare. Quindi, a far tirare il settore erano unicamente gli eco-bonus governativi scaduti lo scorso settembre. Ma queste cose non le leggerete altrove, tranquilli. Anche perché nella terra del Sol Levante stanno prendendo abitudini molto bizantine.
Ora, che i giapponesi fossero dei fenomeni a cambiare le regole in corsa, ce lo dimostrò l’incidente di Fukushima, quando all’aumento delle radiazioni i regolatori risposero con il raddoppio del livello delle stesse ritenuto non pericoloso. L’altro giorno, però, il governo di Shinzo Abe ha superato se stesso, annunciando che sta pianificando l’adozione di un diverso misuratore dell’inflazione per la Bank of Japan. Ufficialmente, la decisione di questo cambiamento – che toglierà dal paniere di riferimento non solo i costi energetici ma anche i prodotti alimentari freschi – sarebbe quello di “innalzare l’asticella” dell’obiettivo inflazionistico postosi dall’esecutivo (il 2%), ma in realtà ai più appare soltanto un mezzuccio per garantire alla Banca centrale munizioni infinite per il suo diluvio di liquidità, visto che al netto dei costi energetici che stanno esplodendo (e che non vengono conteggiati già ora), il tasso inflattivo è quantomeno ancora dormiente. Insomma, l’inflazione anche in Giappone non sarà più solo un indicatore economico ma un mezzo di politica economica, esattamente come in Cina e negli Usa.
Il problema ulteriore, poi, è che nonostante l’inflazione core nel mese di maggio abbia smesso di calare e molti economisti pensano che stia per risalire sopra il livello dello zero, la sparizione della deflazione di cui si fa capopopolo Abe riflette, almeno parzialmente, l’aumento dei prezzi per petrolio e gas importati, risultato dovuto al combinato disposto di yen più debole e della chiusura degli impianti nucleari. C’è poi sempre il rovescio della medaglia, in situazioni come quella giapponese. È vero, infatti, che il prezzo del televisori 32 pollici – compresi nel paniere per calcolare l’inflazione – ha smesso di scendere, ma solo perché la competizione al ribasso sui prezzi si è spostata su modelli con schermo più grande. Lo stesso vale per McDonald’s, il quale ha sì alzato il prezzo di hamburger e cheeseburger, ma ha anche abbassato quello di nuggets di pollo e patatine. Insomma, l’inflazione tanto voluta e ricercata non c’è ancora ma formalmente sono tutti contenti: Abe perché la gente lo ama per la sua politica di taglio delle tasse e il mercato perché prosegue il suo rally in termini nominali, grazie agli acquisti della Bank of Japan e alla svalutazione dello yen. Largo, quindi, alla manipolazione di un altro indicatore economico, di modo che se e quando l’inflazione avrà toccato il 2%, quella reale (ovvero con costi energetici e cibo fresco inclusi), sarà di fatto al 6%.
Insomma, il Giappone sembra convinto che si possa continuare a finanziare il deficit di budget attraverso la Banca centrale e non alzando le entrate fiscali, per quanto non è dato a sapersi. In compenso, sappiamo un’altra cosa: ovvero che, nonostante le politiche di stimolo monetario e fiscale, gli investitori giapponesi quest’anno sono stati venditori netti di assets stranieri, soprattutto securities statunitensi. Nel solo mese di giugno, bonds e notes estere sono state vendute per il controvalore di 2,957 triliardi di yen, mentre sono stati liquidate azioni sempre straniere per 377,7 miliardi di yen. Al contrario, gli investitori esteri hanno spostato il loro interesse dalle obbligazioni ai titoli, comprando 764,5 miliardi di yen di azioni e vendendo 756,3 miliardi di bond. Addirittura da liquidazioni il trading sui bills giapponesi, scaricati per il controvalore di 1,1 triliardi di yen. In maggio, poi, gli investitori giapponesi hanno venduto Treasuries statunitensi per circa 30 miliardi di dollari, un record, dopo i 15,5 miliardi scaricati in aprile. Le obbligazioni Usa sono vendute da investitori giapponesi da 5 mesi di fila, per un totale nel periodo di circa 8 triliardi di yen. Al contrario, in maggio i nipponici hanno acquistato circa 1 triliardo di obbligazioni europee, il livello più alto da gennaio, la maggior parte delle quali erano Bund, venduti invece durante aprile.
Scaricati invece i titoli di debito francesi e britannici per la prima volta dal novembre 2011 e anche i bond australiani per il settimo mese di fila, raggiungendo quota 1,55 triliardi di yen. Tra i mercati emergenti, gli investitori giapponesi hanno comprato piccoli quantitativi di obbligazioni coreane, thailandesi, della Malaysia e di Singapore. In termini di equities, come anticipavamo, in maggio sono stati gli Usa la principale vittima delle vendite nipponiche. Su un totale di 416,9 miliardi di equities estere vendute, quelle statunitensi sono state 317 miliardi. Direte voi: e chissenefrega! E invece no, deve fregarcene eccome, visto che in Giappone opera il Government Pension Investment Fund (GPIF), fondo pensione che al 31 dicembre scorso deteneva 111,9 triliardi di yen di assets, il 60,1% dei quali erano/sono bond sovrani nipponici. Inoltre, in portafoglio aveva anche 14,5 triliardi di yen di titoli giapponesi, il 12,9% del totale.
Per farvi capire di che soggetto stiamo parlando, tradotto in dollari gli assets totali sono 1,1 triliardi, l’equivalente dell’economia coreana, sei volte gli assets del più grosso fondo pensioni Usa, Calpers e quattro volte di quello europeo, lo Stichting Pensioenfonds ABP olandese. In parole povere, se il GPIF soltanto sussurra di una possibile riallocazione del capitale, nel mondo parte la bufera. Lo scorso marzo, HSBC in un report parlò di volontà di riallocazione di parte dei bonds sovrani giapponesi verso obbligazioni dei paesi emergenti, ma dubito che si tratti di numeri sostanziali, tanto più che le cifre che vi ho fornito prima parlano degli investitori giapponesi come venditori netti di assets esteri nei mesi scorsi. Resta quindi un grosso problema, direttamente legato allo scopo cardine dell’Abenomics, ovvero l’inflazione al 2%, un rischio asimmetrico che renderebbe una diversificazione del portafoglio in grande stile molto problematica.
Se infatti l’inflazione salirà su basi sostenibili, questo porterà a una pressione sui tassi di interesse che ridurrà il valore dei bond nipponici detenuti dalle banche, le quali detengono il 90% del loro capitale Core Tier 1 proprio in obbligazioni nipponiche. La sola Bank of Tokyo-Mitsubishi ha detto chiaro e tondo che ridurre i suoi 40 triliardi di yen (485 miliardi di dollari) di bonds sarebbe devastante per i mercati: e se fosse costretto a farlo il mega-fondo pensione, controllato dallo Stato? È per questo che Kuroda ha detto chiaro e tondo ai suoi eroici compatrioti di non vendere bonds e limitarsi a comprare azioni (vendendo equities straniere)? Ma se arrivasse uno shock di quelli seri sul fronte dei tassi di interesse (leggi la Fed) o sul fronte macro e del credito (leggi la Cina), il castello di carta di Abe reggerà? O qualche milione di giapponesi andrà in pensione senza più uno yen?
I due esempi che ho fatto non sono a caso. Se infatti la Federal Reserve sta giocando la sua partita di annunci e smentite nella speranza di far sgonfiare piano piano la bolla obbligazinaria, la Cina appare in guai più seri. È dell’altro giorno il dato che vede il dato dell’export in calo del 3,1% contro le previsioni che parlavano di un +3,7%, il primo dato negativo dal gennaio 2012. Alla radice del risultato, bassa domanda esterna, alti costi del lavoro e un yuan che comincia a essere troppo forte per l’arbitraggio commerciale. E non è tutto. La prima vittima della crisi di liquidità cinese (di cui abbiamo parlato qualche settimana fa) ha un nome ed è uno di quelli che fanno rumore. La Rongsheng Heavy Industries Group, prima azienda privata del Paese nella cantieristica navale, non solo ha presentato un profit warning per perdite nella prima metà di quest’anno, ma venerdì scorso ha chiesto aiuto allo Stato, poiché incapace di far fronte ai pagamenti di stipendi e forniture per l’assottigliamento sempre maggiore dei cash flows.
Di più, ha anche chiesto aiuto finanziario ai propri azionisti, nei fatti lanciando un aumento di capitale d’emergenza che parla la lingua del collasso di liquidità. E gli analisti si dicono certi che il governo, a fronte dei 20mila posti di lavoro garantiti dall’azienda, tenderà la mano e la dichiarerà “too big to fail”. Alla base della crisi, tre fattori chiave: la sovra-capacità, il crollo dei nuovi ordinativi e il sistema di finanziamento ombra che sta mettendo in ginocchio aziende sempre più grandi. Lo scorso anno, Rongsheng vinse ordini solo per 55,6 milioni di dollari, a fronte di un target – e quindi di un break-even di bilancio programmato – di 1,8 miliardi. Non è la prima volta che l’azienda riceve aiuti di Stato, ma nel 2010 i 520 milioni di yuan garantiti dal governo della provincia di Jiangsu servirono per l’Ipo alla Borsa di Hong Kong, mentre nel 2011 ottenne 1,25 miliardi di yuan e nel 2012 altri 1,3 miliardi.
Il timore, però, è che in un mondo – quello cinese – alle prese con un deleveraging forzato da 1 trilione di yuan, la Rongsheng sia soltanto il proverbiale canarino nella miniera di carbone, vittima sacrificale per evitare che altri soggetti muoiano se la presenza di gas è confermata. Prima della Rongsheng, la Suntech Power Holdings, produttore di pannelli solari a livello mondiale, aveva fatto richiesta di salvataggio statale, a causa del crollo della domanda e dei costi sempre maggiori di finanziamento. Ma la cantieristica navale paga anche lo scotto di una grandeur giunta al parossismo nella scorsa decade, visto che nel 2012 la Cina contava 1647 cantieri, il 60% nella provincia del Rongsheng contro i 10 della Corea del Sud e i 15 del Giappone. Non a caso, Jon Windham, analista di Barclays Bank, ha previsto che «se le condizioni attuali di mercato persisteranno, i fallimenti di cantieri navali in Cina diverranno una realtà quotidiana». Ma forse non sarà il caso di Rongsheng, sia perché il suo Ceo, Chen Qiang, beneficia di forti entrature governative, sia per le connessione con il sistema bancario dopo l’ipo, sia per il fatto che il fallimento sarebbe controproducente per le casse dello Stato a livello di imposte.
Il gigante, però, scricchiola. E lo conferma anche l’indice di Borsa, lo Shanghai Composite che da inizio anno ha perso il 14%, peggiore tra le Borse asiatiche. Ed essendo composto per la gran parte da componenti retail, ci offre un quadro perfetto dell’attuale sentiment cinese: forse non sarà il mitologico e tanto temuto hard landing, ma la crescita quasi a doppia cifra è ormai un lontano ricordo.