Anche il ministro Zanonato ha sentito il bisogno di richiamare all’ordine i petrolieri, a fronte dell’aumento del prezzo del carburante, ma le radici di certe anomalie non vanno cercate nelle stazioni di servizio, bensì quasi sempre in eleganti uffici o in porti supertrafficati. Due giorni fa il Brent ha sfondato quota 110 dollari il barile (salvo ritracciare in area 108), il massimo da tre mesi e per gli analisti la ragione di questo rally è da ricercarsi in tre variabili: diminuzione delle giacenze di stoccaggio, domanda solida e il timore che gli avvenimenti in Egitto possano limitare le forniture. Una quarta ragione ce la offre Carsten Fritsch, analista di Commerzbank citato da Cnbc: «C’è un sacco di denaro speculativo piazzato sul petrolio, ma il costo del carburante sta avendo un effetto deprimente, limitando la domanda dei consumatori». Sarà vero?
Nella settimana conclusasi martedì scorso, i money manager hanno fatto scommesse sul rialzo del prezzo del petrolio ai massimi da due anni: stando a dati della Commodity Futures Trading Company, i contratti con posizioni net long sono stati 281.918 in una settimana, il 7% di aumento dai sette giorni precedenti e il massimo dal 22 marzo 2011. Certo, chi fa soldi per lavoro segue i trend di mercato e quindi scommette. Il problema è quando causa ed effetto fanno cortocircuito. Come nelle ultime due settimane, periodo durante il quale gli inventories petroliferi sono scesi del volume record di 20 milioni di barili, un evento mai accaduto negli ultimi trent’anni, ovvero da quando di tracciano questi dati. Un po’ inspiegabile, visto lo stato generale dell’economia globale, a dir poco anemico.
Gli Usa non necessitano di extra-forniture, sia per l’efficientamento energetico, sia per l’uso di fonti alternative, sia perché non vi sono ragioni macro che vedano le industrie alla ricerca di maggior petrolio. Insomma, in un Paese dove il numero di chi beneficia del sussidio alimentare è ai massimi dal Dopoguerra, difficilmente si scorrazza in massa sulle freeways. Inoltre, le raffinerie stanno lavorando al 92% della loro capacità, quindi la fornitura globale è quasi ai livelli massimi: come si spiegano allora quei 20 milioni di barili in meno? Oltretutto, la produzione interna Usa nelle ultime due settimane è stata molto alta, rispettivamente 7,2 e 7,4 milioni di barili, con l’import sceso di 7,4 e 7,5. Quindi, la ragione per quei 20 milioni di barili potrebbe stare nel calo dell’import, ma quando si compara la produzione interna con quella dello scorso anno, abbiamo 1 milione di barili in più: insomma, offsetting, la produzione interna supplisce al petrolio saudita. Anzi, aumenta.
Se così stanno le cose, dove finisce l’extra-capacità saudita, visto che non spedisce più petrolio negli Usa per i soliti volumi? Difficilmente in Cina, vista la contrazione registrata anche dal dato del Pil del secondo trimestre. O, comunque, non per quei numeri. E nemmeno in Europa, visto il quadro macro dell’industria, l’alto tasso di disoccupazione e il peggior dato di vendita di automobili da 20 anni a questa parte. Ed ecco subentrare un dubbio, instillato da un altro dato completamente sconnesso dai fondamentali: l’aumento delle tariffe di noleggio delle navi cisterna, capaci di trasportare fino a 2 milioni di barili. A confermarlo due indicatori: il Baltic Dry Index (BDI) salito del 14% la scorsa settimana, il livello più alto del 2013 a quota 1.027 punti, e il Baltic Tanker Dirty Index (BDIY), dedicato proprio alle navi cisterna per il petrolio che oscilla in area 612 punti. Per gli analisti del settore, a spingere la domanda sarebbe stata la Cina con le sue importazioni di iron ore e l’export indonesiano di carbone verso l’India, ma anche il timore di un blocco totale o parziale del Canale di Suez a causa della situazione egiziana, tanto che gli aumenti più netti su tutte le categorie di navi cisterna (Panamax, Supremax e Capesizes) si sono registrati nella settimana dal 22 al 29 giugno, quella che portò alla grande manifestazioni di piazza anti-Morsi del 30, come dimostra la tabella sottostante.
Insomma, la preoccupazione per i giorni in più di navigazione passando dalla rotta alternativa al largo del Sudafrica spingeva i prezzi: ma perché, allora, quella massa di scommesse al rialzo la scorsa settimana, quando la situazione in Egitto non è certo rosea, ma non pare nemmeno pronta a esplodere da un momento all’altro come a inizio luglio? La scorsa settimana, infatti, le tariffe sono scese, con il benchmark per il trasporto di greggio sulla rotta Arabia Saudita-Asia giù dell’1,4% a 41,75 punti sull’indice Worldscale, il livello minore dal 12 giugno, stando a dati della Baltic Exchange di Londra. Ma se l’Egitto non crea guai e gli Usa importano meno dall’Arabia Saudita grazie alla produzione interna, dove è finito il petrolio in eccesso? Potrebbe essere sulle navi cisterna, tolto dal mercato e messo “a riposo” per garantire un aumento artificiale del prezzo a fronte di una domanda falsamente in crescita, stante la fornitura costante. Poi, operando sui futures, come i dati Usa hanno confermato, si mette sul mercato quel petrolio a prezzi più alti.
Non sarebbe infatti la prima volta che grandi players usano stratagemmi simili. Nel 2008 la Koch Industries, un conglomerato petrolchimico Usa specializzato in trasporto, raffinazione e distribuzione del petrolio, forte del suo controllo di tutti i segmenti del mercato, diede vita alla cosiddetta “contango speculation”. Un mercato commodity si definisce in “contango” quando si attende un aumento dei prezzi, ovvero quando la domanda supera l’offerta e le quotazioni salgono. Le grandi banche d’affari e compagnie come la Koch non fecero altro che comprare petrolio quando il prezzo era basso e stiparlo in container su terra e navi cisterna nei porti in attesa della salita del prezzo. Nel dicembre 2008, Koch prese in affitto quattro super-petroliere per stoccare petrolio Usa al largo del Golfo del Messico e non fece altro che attendere l’aumento dei prezzi, concretizzatosi nei mesi successivi a causa della diminuzione dell’offerta, per vendere dopo aver deliberatamente manipolato il mercato.
Non è un caso, poi, che venerdì scorso i futures RBOB sulla benzina abbiano chiuso in rialzo di 40 centesimi di dollaro dal prezzo registrato il 1 luglio, 2,70 dollari, dopo aver toccato il massimo intraday di 3,15 dollari: il tutto, senza che al mondo si registrasse un evento clamoroso come l’esplosione contemporanea di una decina di raffinerie, un evento naturale che distrugga infrastrutture energetiche o una scarsità di fornitura dovuta a eventi bellici. Anzi, le forniture di benzina quest’anno sono di 221 milioni di barile in giacenza contro le 207 dello stesso periodo dello scorso anno, quando il prezzo del greggio era attorno agli 85 dollari al barile e i futures RBOB erano a 2,71 dollari. Quindi, abbiamo il combinato disposto di maggiore fornitura ma prezzi più alti di un anno fa.
Basti pensare che nell’arco di due giorni, mercoledì-venerdì della scorsa settimana, i futures RBOB hanno conosciuto un balzo da 2,86 dollari a 3,10 dollari. Soltanto un attacco israeliano all’Iran o la piena occupazione negli Usa potrebbe spiegare altrimenti un movimento al rialzo simile, pari a un utilizzo di benzina 10 volte quello reale. Ma Israele non ha attaccato l’Iran, né pare in procinto di farlo e l’America è ben lungi da quell’obiettivo: che qualcuno, per l’ennesima volta, stia facendo soldi con il petrolio di carta, scaricando il conto sul pieno di benzina della vostra automobile?
P.S.: Prima di essere arrestato in tribunale, dopo la condanna a 5 anni di carcere, ieri l’oppositore e blogger russo Alexei Navalny ha lanciato un ultimo tweet: «Non lasciatevi andare, non restate inattivi». Ed ecco la reazione della Borsa di Mosca immediatamente dopo l’arresto. Solo coincidenze o su Twitter il dissidente Navalny è seguito da gente che conta?