Pensavate che il Giappone avesse vinto di diritto la palma di “manipolatore dell’anno” cambiando ad hoc i metodi di calcolo e il paniere dell’inflazione, tanto per dare una manina a quell’Abenomics che non sta poi funzionando così bene? No, da ieri la Commissione europea è entrata di diritto nel novero dei candidati, stile “Notte degli Oscar”, dopo aver reso nota la nuova metodologia – operativa dal prossimo settembre – per il calcolo delle statistiche pubbliche dei paesi membri da parte di Eurostat. Direte voi, cambiano i tempi, cambiano le variabili, cambiano anche i metodi. Giusto. Peccato che grazie ai nuovi criteri, questa novità potrebbe tramutarsi per l’Italia, la Spagna e il Portogallo in un incremento tra l’1% e il 2% del dato pregresso del Pil 2011, per la Germania e la Francia compreso tra 2 e 3 punti percentuali e addirittura fino al 5%per la Finlandia e la Svezia. Olè, più Pil farlocco per tutti!
La nuova metodologia, d’altronde, ha già portato negli Usa, dove è stata adottata nell’agosto 2013, a un incremento del Pil del 3,5% per gli anni dal 2010 al 2012. Non c’è limite al peggio. O, come dice un banchiere popolare cui affido i miei dubbi, «la realtà economica deve essere come i modelli dicono, se non è tale, è sbagliata la realtà. Ma la realtà ha la testa dura. E prima o dopo finisce con il riprendere il sopravvento». Ma vediamo questi nuovi criteri.
Primo, la spesa in ricerca e sviluppo ha natura di investimento e quindi va registrata come investimenti fissi lordi e non più come spesa corrente: solo questa voce porta a un incremento il prodotto interno lordo dell’Unione europea di circa l’1,9%. Secondo, la spesa per gli armamenti ha carattere di investimento. Quindi, uno splendido regalo alla lobby della difesa, guarda caso con i tedeschi in prima fila nella categoria. A causa della loro natura potenzialmente distruttiva, infatti, in precedenza gli armamenti venivano registrati come consumi immediati. Il nuovo sistema, invece, riconosce realisticamente il loro potenziale produttivo per la sicurezza esterna di un Paese, nell’arco di diversi anni. Questo li identifica come investimenti fissi lordi e porterà un aumento del Pil dell’Unione europea di circa lo 0,1%.
Terzo, il valore dei beni inviati all’estero per l’elaborazione non avrà più un impatto sulle esportazioni lorde e sui dati delle importazioni, poiché il sistema ESA 2010, alla luce della globalizzazione, ha cambiato l’approccio e non è più basato sui movimenti fisici. ESA 2010 registra solo un servizio di esportazione e questo ridurrà leggermente il livello delle esportazioni e delle importazioni, pur non influenzando il saldo globale. Quarto, è stata presentata un’analisi più dettagliata dei regimi pensionistici. Una tabella complementare obbligatoria mostrerà infatti in modo trasparente le responsabilità di tutti i regimi pensionistici, al fine di migliorare la comparabilità tra i Paesi. ESA 2010 dovrebbe anche migliorare significativamente la misura del contributo dei servizi assicurativi al Pil. In base al sistema precedente, questo contributo era basato sulla differenza tra premi e sinistri ma dato che il livello dei sinistri può essere molto volatile, il risultato era volatile. In ESA 2010 la formula per il calcolo del rendimento dell’assicurazione “non vita” è stata modificata al fine di regolare il livello di questo rendimento.
Insomma, in parole povere, per evitare rivolte (devono aver letto gli ultimi sondaggi sul gradimento delle istituzioni europee alla Commissione), si fa in modo che cresca artificialmente il Pil per rendere meno massacrante, ad esempio, il parametro deficit/Pil al 3%, oppure l’abbassamento dello stock di debito – 40 miliardi l’anno per l’Italia – previsto dal Fiscal compact. Ti spennano ma un po’ meno, non ti mandano in default subito ma lentamente, rendendo la cosa gestibile almeno nel breve termine ma devastando la crescita in realtà.
Questo perché la realtà economica e macro dei paesi non cambia, non c’è crescita in più, c’è solo una diversa valutazione delle voci che si materializza in punti di Pil “irreali” e unicamente statistici. Perché lor signori sanno che le cose non sono affatto migliorate, che i paesi “salvati” non sono affatto tali e che il Fiscal compact altro non è che un disintegratore di economie destinato ad allungare la coda di paesi davanti agli uffici della troika, quindi danno un po’ di ossigeno alle nazioni agendo sul denominatore della ratio ma in realtà è solo un modo per perpetuare le scelte sbagliate compiute finora, travestendole da riforme dure ma necessarie per non far vedere la loro vera faccia. Ovvero, il mezzo per arrivare all’eliminazione totale del concetto di sovranità e per imporre la primazia della finanza sull’economia reale. La pillola, con un po’ di zucchero, magari andrà anche giù ma quella del Fiscal compact contiene arsenico.
Non c’è che dire, a manipolazione Orwell avrebbe da imparare dai burocrati e dai legislatori europei. Ma anche alla Bce non scherzano quando si tratta di cambiamenti in corsa delle regole del gioco. Due funzionari sotto anonimato interpellati da Bloomberg, pur non ufficializzando la novità, hanno infatti reso noto che la Banca centrale sarebbe intenzionata a fissare al 6% il livello minimo di Core Tier 1 ratio richiesto negli stress test di quest’anno. E qualcuno, immediatamente, si è sentito in dovere di sottolineare la maggior severità della Bce, visto che stress test del 2011 vedevano il livello minimo al 5%. Peccato che quest’anno quel livello dovesse essere dell’8%! Quindi, un bel 25% in meno richiesto alle banche. Ora, stando alle ultime analisi fatte, le maggiori banche italiane non avrebbero molto da temere, visto che la loro dotazione di capitale, già armonizzato agli standard di Basilea 3, è sopra il 10%.
C’è da dire poi che sarebbe una bella boccata d’ossigeno però per altri soggetti più piccoli, visto che l’abbassamento della soglia aumenterebbe il surplus di capitale per il settore anche nello scenario “stressed”, da 5 miliardi a 29 miliardi, riducendo quindi il gap negativo di molti istituti. Qualche esempio? Stando alla simulazione di Intermonte Sim, Popolare Emilia Romagna e Popolare di Milano passerebbero da un deficit patrimoniale a un surplus anche senza il contributo dei modelli IRB, mentre il Banco Popolare e il Credito Valtellinese raggiungerebbero il limite: 50 milioni di euro di deficit BP, 35 milioni il Creval ma potendo compensare la differenza con altre cessioni o ulteriore deleveraging. Resterebbero ancora in deficit patrimoniale, invece, sia Carige che Monte dei Paschi.
Ora, va benissimo, meglio per le nostre banche e meglio anche per noi. Ma due cose vanno dette: primo, se si arriva a un cambio in corsa del genere, vuol dire che tutto questo stato di salute incoraggiante il sistema bancario europeo non può vantarlo. E che probabilmente si temono shock o, peggio, attacchi speculativi a ridosso della primavera. Secondo, chi finora ha fatto le regole e imposto i criteri, dovrebbe scusarsi, prendere le sue cose e andarsene. È semplice: se si decide di far partire la nave senza carburante e scorte adeguate, oltretutto con diciotto comandanti sul ponte, bisogna procedere ad aggiustamenti progressivi e correggere la rotta. Altrimenti si sta fermi e dalla riva, poi, tutti vedono che il Re è nudo. Tenere all’8% la quota minima di capitale per un esercizio ipotetico previsionale avrebbe portato a uno shortfall di capitale per le banche europee di dimensioni tali da bloccare la crescita per anni. È il film già visto in Italia per Basilea3: si è detto per anni che non ci sarebbe stato deleverage e solo un impatto trascurabile sul Pil. Ma nei fatti, se io banchiere devo avere più capitale e non ho la redditività per generarlo, perché devo spesare le sofferenze perché c’è recessione e nessuno mi finanzia sul mercato, posso solo ridurre gli attivi.
Per citare ancora il mio banchiere di fiducia, «guai della navigazione strumentale senza osservazione a vista». Ma che ci sia sotto qualcosa, ovvero un enorme operazione mediatico-politica per far passare riforme che altrimenti i popoli cercherebbero di fermare una volta capito in quale disastro si sostanzierebbero, lo dimostra anche la melina messa in atto negli ultimi giorni dalla Bundesbank, una strategia di logoramento verso Mario Draghi degna del miglior Matteo Renzi contro il governo Letta. Dopo le bastonate alla politica di tassi troppo bassi e di calcolo risk-free dei bond sovrani lanciata dalla sua numero due, destinata a entra nel Consiglio direttivo dell’Eurotower, ieri il capo della Buba, Jens Weidmann, ha sfoderato la carota, dicendosi d’accordo con il presidente della Bce, Mario Draghi, sul fatto che non ci sia ragione per nutrire «irrazionali timori inflattivi» nella zona euro. Pur avendo difeso la politica monetaria europea caratterizzata da bassi tassi di interesse, Weidmann non ha mancato di sottolinearne i rischi di lungo periodo: «Non può diventare una terapia permanente», ha avvertito, sottolineando la necessità di mantenere sotto controllo i livelli dei prezzi. E ancora: «Temere che l’Europa scivoli in uno scenario giapponese è inappropriato. D’altra parte, non bisogna dimenticare che tassi bassi dovrebbero essere anche un incentivo a consumare e a investire di più». Ma vah, ma se io in tasca non ho un euro e arrivo sì e no a metà mese o sono disoccupato grazie alla vostra austerity, come consumo caro Weidmann?
Senza vergogna. Più allarmanti, invece, le parole del direttore generale del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, secondo la quale i rischi di deflazione potrebbero invece esserci e rivelarsi disastrosi per l’economia globale: «Assistiamo a crescenti rischi di deflazione che potrebbero rivelarsi disastrosi per la ripresa. La deflazione è il mostro che deve essere combattuto in modo deciso. Inoltre, occorre fortificare il flebile processo di ripresa globale». Sempre la Lagarde ha poi invitato la Fed «a evitare di ritirare con troppo anticipo il suo programma di supporto ai mercati», visto che «la spinta giunta dall’Abenomics in Giappone si sta indebolendo un po’» e che «la politica monetaria dell’area euro potrebbe fare molto di più». La Lagarde, forse, sa o vede cose che Weidmann nemmeno contempla, perso com’è nella fitta nebbia di Weimar.