Ormai è un successo continuo, ieri il Tesoro italiano ha fatto il pieno per la terza volta in una settimana. Il ministero dell’Economia ha collocato 3 miliardi di Btp quinquennali e 4 miliardi di decennali, al top dell’offerta: il rendimento dei quinquennali è sceso al minimo record del 2,14%, contro il 2,45% della precedente asta, con la domanda che si è attestata a 1,6 volte l’offerta, contro le 1,42 volte della precedente asta. Anche il rendimento del decennale è calato al 3,42%, sotto il 3,5% e al minimo dal 2005, contro il 3,81% della precedente asta: la domanda è risultata pari a 1,58 volte l’offerta. Il Tesoro ha infine emesso 967 milioni di euro di Ccteu novembre 2018 all’1,56% (dall’1,79% del 30 gennaio) e 1,033 miliardi di euro di Ccteu aprile 2018 all’1,43% (dal 2,48% del 12 settembre).
Effetto Renzi? Forse, ma anche una spiegazione tecnica: certo, l’asta è andata bene nonostante l’alto ammontare, dovuto soprattuto al nuovo titolo in asta e proprio il nuovo decennale ha attratto un grosso interesse, specie da parte degli investitori domestici, ovvero leggi le nostre banche che ormai sono “primary dealers” in perfetto stile Usa. D’altronde, nei giorni scorsi non si era registrata sul mercato alcuna debolezza e questo è dovuto anche al fatto che questa settimana ci sono 13 miliardi di scadenze e 7 miliardi di cedole: quindi, c’era liquidità da reinvestire. Certo, il fatto che si decida di reinvestire su debito italiano è una buona notizia per noi, talmente buona che grazie al buon esito dell’asta di ieri e di quelle tenute in settimana di Ctz e Bot, l’Italia continua ad andare meglio della Spagna.
Il differenziale di rendimento tra Btp e Bund in tarda mattinata era a 190 punti, in calo rispetto ai 193 punti della chiusura di mercoledì e il rendimento è al 3,46%, mentre lo spread tra Bonos e Bund era a 194 punti con un tasso al 3,50%. Insomma, nuova inversione a nostro favore rispetto ai cugini iberici. Ma cosa muove i differenziali al ribasso? E vale solo per noi e la Spagna questa dinamica virtuosa? No. Ieri il rendimento del Bund a 10 anni è sceso al minimo da sette mesi, grazie al dato che vede l’inflazione rallentare in sei Lander tedeschi questo mese, segnale che per i mercati significa la sempre più probabile adozione da parte della Bce di una politica di stimolo maggiormente espansionistica. Anche i tassi olandesi sono scesi al minimo da nove mesi e quelli irlandesi da cinque settimane, mentre gli yields di titoli austriaci e finlandesi stanno beneficiando della tensione in Ucraina che spinge gli investitori a trincerarsi nella relativa certezza offerta dagli assets a reddito fisso. Insomma, tutti a guadagnare in attesa della decisione della Bce prevista per il 6 marzo prossimo.
E già gli strategist sono certi che almeno fino a quella data il mercato continuerà a supportare le aspettative di un intervento dell’Eurotower, quasi certamente attraverso l’annuncio di acquisto di titoli senza più aste di sterilizzazione, ovvero attraverso un ampliamento del suo stato patrimoniale in stile Fed. Da inizio anno a ieri, i bonds dell’area euro hanno garantito guadagni del 2,9%, stando ai Bloomberg World Bond Indexes, supportati sia dai dati provenienti dalle nazioni periferiche che dalle aspettative di una specie di Qe in salsa europea che permetta alle banche, stracariche di titoli di Stato, di affrontare con meno patemi d’animo gli stress test. Ma ieri il vero catalizzatore è giunto, come dicevamo prima, dalla Germania. Il tasso di inflazione annualizzato nella regione della Sassonia è sceso all’1,2% in febbraio dall’1,4% di gennaio e la crescita dei prezzi al consumo è rallentata anche in Assia, Baviera, Baden Wuerttemberg, Nord Reno Westfalia e Brandeburgo: un dato chiaro, visto che la bassa inflazione preserva il valore dei pagamenti fissi dei bond.
Il tasso d’inflazione annuale tedesco, calcolato utilizzando il metodo armonizzato dell’Ue, è sceso al’l’1,1% questo mese dall’1,2% di gennaio, stando a una stima media degli economisti di Bloomberg. Di più, il tasso break-even del decennale tedesco, un indice delle aspettative inflazionistiche, è sceso all’1,29%, il dato più basso da maggio 2012. A questo punto, le «maggiori informazioni» dietro cui si trincerò Mario Draghi prima nella riunione del board del 6 febbraio e poi in quella del 23 per giustificare l’inazione della Bce, sono tutte sul tavolo: con dati sull’inflazione tali, difficilmente la Bundesbank potrà alzare troppe barricate in nome del pericolo Weimar, tanto più che la stessa Banca centrale tedesca nel suo ultimo bollettino mensile si è detta favorevole ad acquisti di bond senza sterilizzazione, di fatto però nell’alveo del programma Smp, visto che l’Omt è già stato bocciato dalla Corte costituzionale di Karlsruhe.
C’è però un problema che potrebbe frenare Draghi dall’agire la prossima settimana, è sta tutto nel dato reso noto ieri riguardo la creazione di massa monetaria M3. Come potete vedere dal primo grafico, la creazione di M3 ha accelerato in gennaio passando dall’1% all’1,2%, sempre ben sotto l’obiettivo del 4,5% della Bce, ma quantomeno ha visto il flusso di credito verso il settore privato attestarsi al -2% anno su anno, lo stesso valore di dicembre, come mostra il secondo grafico. Niente che debba far saltare i tappi di champagne, stante i livelli ancora devastanti per l’economia reale, ma potrebbe essere sufficiente per rinfocolare in Draghi le speranze che il suo scenario di graduale ripresa, con la crescita del Pil all’1,1% quest’anno, possa andare in porto senza mobilitare misure straordinarie, da tenersi nell’arsenale in caso di scenario avverso di correzione dei corsi a livello globale, magari per il “taper” troppo spinto o per un avvitarsi della crisi dei mercati emergenti.
Insomma, dopo un crollo di 45 miliardi di euro in novembre e dicembre, il flusso di credito al settore privato a gennaio di quest’anno ha smesso di calare e sembra stabilizzatosi: il timore è che l’Eurotower veda in quel -2% anno su anno il proverbiale fondo da toccare e non agisca, scordandosi che al netto della stabilizzazione con questi numeri non si cresce e soprattutto non si capisce come si possa passare da un dato stabilizzato a uno in miglioramento. L’Eurotower pensi bene a ciò che deve fare: sbagliare ora potrebbe pregiudicare la ripresa non per il 2014 ma per una decina d’anni, in perfetto stile giapponese. Anche perché quel rallentamento dell’inflazione è un’arma a doppio taglio, visto che avvicina sempre maggiormente l’ipotesi di entrata in deflazione per un’Europa che dopo quattro anni abbondanti di recessione non reggerebbe i colpi di un’altra crisi.