Ora cominciate a credermi quando vi dico che questi mercati sono sconnessi, drogati e disfunzionali e che la bolla non può gonfiarsi ancora per molto? Non per altro, ma perché ormai sono i dati ufficiali, quelli riportati dai media mainstream, a dircelo quotidianamente: prendete gli Usa, ad esempio. L’altro giorno nuovo record assoluto dell’indice S&P’s 500, salvo poi un breve ritorno alla normalità in chiusura di contrattazioni: ma questo da cosa è stato reso possibile? Ve lo dico subito: dopo l’accelerata della seconda metà del 2013, l’economia americana «ha perso slancio», provocando la contrazione del 2,9% del primo trimestre, a causa di una serie di fattori avversi, tra cui l’ondata di maltempo di inizio anno, un mercato immobiliare ancora in difficoltà e un calo della domanda esterna. Ma negli ultimi mesi «si vedono generalizzati miglioramenti», soprattutto sul fronte dell’occupazione e della produzione industriale. È quanto si leggeva nel rapporto conclusivo della missione di monitoraggio Articolo IV condotta dal Fondo monetario internazionale a Washington.
Insomma, per farla breve, il Fmi ha tagliato e non di poco le stime di crescita degli Usa: per l’istituto di Washington l’economia «accelererà per il resto dell’anno al di sopra del potenziale (tra il 3% e il 3,5%)», ma non basterà ad annullare la contrazione del primo trimestre, motivo per cui la crescita del 2014 «sarà un deludente 1,7%». Una nota positiva «è che nel 2015 accelererà al tasso annuale più rapido dal 2005»: salvo l’ennesima revisione al ribasso che conosceremo in autunno, quando dati peggiori del previsto potrebbero portare con loro il benefico effetto – per la Borsa e la bolla – della non riduzione a quasi zero del programma di stimolo della Fed. Sempre stando al Fmi, guardando al medio termine, la crescita potenziale «sarà poco sopra il 2% per i prossimi anni, ovvero significativamente al di sotto della media storica», anche a causa dell’invecchiamento della popolazione e delle «modeste prospettive di crescita della produttività».
Un altro problema è che «la crescita non è particolarmente inclusiva» e quasi 50 milioni di americani vivono in povertà: avete letto bene, 50 milioni di statunitensi – la patria dove gli indici sfondano un record al giorno – sono in piena povertà, senza coperture assicurative e nella migliore delle ipotesi in grado di sfamarsi solo grazie ai food stamps, i buoni governativi per i nullatenenti o quasi.
E il miracolo dell’Abenomics? Bene, è di ieri la notizia che il disavanzo commerciale a Tokyo è risultato più importante rispetto a quanto pronosticato dagli economisti a causa di un crollo inatteso delle esportazioni. Il deficit di giugno si è attestato a 822,2 miliardi di yen (8,1 miliardi di dollari), oltrepassando di gran lunga la stima di Bloomberg News per 643 miliardi di yen (sono stati interpellati 32 esperti). L’export è calato del 2% rispetto a un anno prima, mentre le importazioni solo cresciute dell’8,4%, un dato particolarmente significativo perché il Giappone è un Paese votato alle esportazioni. Insomma, la stamperia innescata per indebolire lo yen e mettere il turbo all’export non sta funzionando, in compenso però ha già devastato il mercato obbligazionario sovrano interno e inondato di cartaccia un sistema che se dovesse innescare una rotazione sugli assets potrebbe davvero deragliare.
Ma c’è di peggio e ci riguarda direttamente, visto che l’Europa non solo non cresce – quando lo dicevo io ero un disfattista -, non solo ha smesso di trainare anche la Germania, non solo si è schiantata anche l’unica voce che dava un po’ di ossigeno (ovvero, l’export verso l’extra-Ue) ma i tremori che giungono dal sistema ora fanno davvero paura. Certo, ieri il Ftse Mib a Milano ha di nuovo sfondato quota 21mila punti dopo che l’indice Pmi composito dell’area euro di luglio, nella seconda la lettura preliminare di Markit, si è attestato a 54 punti, in aumento rispetto al dato definitivo di giugno a 52,8 e al consenso a 52,7 punti: non lo nego, giusto riportare la notizia anche se non credo affatto a questo dato. Il problema è che nel silenzio generale dei media, due giorni fa qualcuno lo ha detto chiaro e tondo che l’Europa rischia e molto. Non il sottoscritto, bensì il presidente del Portogallo in persona, Anibal Cavaco Silva, il quale in uno slancio di onestà che temo sia figlio non tanto di un ritorno tardivo al realismo ma della disperazione di ciò che ci aspetta, ha dovuto dire chiaro e tondo che i due fallimenti di Esi e RioForte, cassaforte e holding del gruppo bancario Espirito Santo, «devono portarci a pensare che non possiamo ignorare più la possibilità che ci saranno impatti sull’economia reale».
Insomma, il Portogallo della ripresa, dell’uscita dal programma di salvataggio, dell’impatto limitato di Banco Espirito Santo grazie all’intervento della Banca centrale lusitana, dovrà per forza rivedere il suo dato di crescita del +0,9% per quest’anno: e se fosse necessario tamponare quel possibile “impatto” sull’economia reale, ovvero ricapitalizzare qualche banca? In quanto sarà quantificabile quell’impatto, visto che si è già contagiato due holding e di fatto Telecom Portugal col mancato rimborso del prestito da 1 miliardi di euro? E se l’effetto sul Pil prendesse una piega a picco, come ci mostra il grafico di simulazione a fondo pagina, cosa succederebbe al resto dell’eurozona, Spagna in testa vista, l’esposizione iberica all’economia lusitana?
E attenti, perché a occhio e croce negli Usa hanno tutta l’intenzione di non pagare in pieno il prezzo della bolla, ma anzi di cercare di far saltare il tappo altrove, proprio in Europa ad esempio. Qualche settimana fa, infatti, le autorità Usa comminarono una multa da 9 miliardi contro il gigante bancario francese Bnp Paribas, scatenando la reazione diplomatica del capo della Banca centrale transalpina, Christian Noyer, il quale sparò una vera e propria bomba dicendo che «i giorni del dollaro come moneta di riserva globale sono ormai contati», L’altro giorno, invece, in quella che pare una chiara reazione alla posizione più attendista della Germania verso nuove sanzioni contro la Russia, il Wall Street Journal ha reso noto al mondo con una flemma invidiabile che «le operazioni statunitensi di Deutsche Bank hanno sofferto una serie di seri problemi, incluso operazioni di reporting finanziario non accurate, auditing e supervisione inadeguati e sistemi tecnologici deboli».
Capite che avendo Deutsche Bank un esposizione totale ai derivati che ammonta a 55 triliardi di euro (circa 75 di dollari), questo invito a fare i bravi quando ci sarà da votare “sì” a nuove sanzioni rischia di essere molto pericoloso: parliamo di numeri, prima del netting, pari a 5 volte il Pil europeo e più o meno pari al Pil mondiale. Di più, l’auditor esterno Kpmg – quello che mese fa circa aveva messo in guardia da conti e governance proprio di Banco Espirito Santo – ha inoltre riscontrato «mancanze nel modo in cui i rami operativi della banca negli Usa hanno riportato i dati finanziari nel 2013». Proprio quelli che fecero scoprire al mondo la messe di derivati in pancia alla banca tedesca: erano fabbricati ad arte? Oppure gli Usa stanno giocando sporco e molto duro in vista del redde rationem? Al quale, ve lo garantisco, non manca molto.
Vi offro un ultimo dato, direttamente dal rapporto mensile dell’Abi, pubblicato mercoledì, dal quale si evince che le sofferenze bancarie lorde per gli istituti italiani, nel mese di maggio, hanno raggiunto quota 168,6 miliardi di euro, in aumento del 24% rispetto allo stesso periodo del 2013. Si tratta di circa 32,9 miliardi in più rispetto a fine maggio 2013 e anche le sofferenze nette hanno registrato un aumento, passando dai 76,8 miliardi di aprile ai 78,7 miliardi di maggio. Ripeto, dati Abi non miei. Proprio come quelli che dimostrano come negli ultimi due anni i prestiti al settore privato siano diminuiti di oltre 100 miliardi.
Ora, con questi dati, gli obblighi di deleverage già in atto in ossequio alle nuove normative di Basilea, oltre a 400 e passa miliardi di titoli di Stato in portafoglio, pensate davvero che i soldi che la Bce metterà a disposizione in autunno serviranno a riattivare il credito? E come potrà mai ripartire la nostra economia, quelle spagnola e portoghese, senza che le imprese possano finanziarsi a tassi gestibili? Ma si sa, ieri c’era l’indice Pmi da festeggiare: che la musica continui e proseguano le danze.