Appare ormai chiaro come la guerra dei dazi scatenata da Donald Trump sia in realtà un chiaro tentativo di arginare quello che appare sempre più uno strapotere della Cina, il vero bersaglio della politica tariffaria dell’Amministrazione americana.
Ma non si tratta certo di una novità, perché già Obama nel 2015, quando con tutti gli onori ricevette alla Casa Bianca il suo omologo cinese, parlò di accordo sul clima (disatteso clamorosamente sia da una parte che dall’altra) ma anche di accordi commerciali (nel 2013 nel Ttp con i Paesi asiatici gli Usa avevano escluso proprio la Cina) e di mire espansionistiche della Cina su Taiwan.
Fu un colloquio franco e cordiale, ma costellato da luci e ombre, ma è di tutta evidenza che Obama non intese il pericolo che le sue aperture a Oriente avrebbero poi potuto produrre in seguito. Eppure proprio nel 2015 il leader cinese aveva espresso chiaramente che l’obiettivo della Cina era quello di crescere proprio nel settore tecnologico.
Prima di altri la Cina aveva capito che il futuro si sarebbe giocato su transizione energetica e microchip, e la sua politica espansionistica su Africa e Sud America era volta proprio a quel preciso scopo.
Poi, dopo la parentesi dei dazi di Trump, fu proprio Biden a iniziare una politica di forti tensioni con la Cina, non solo per la questione legata a Taiwan, ma anche per l’imbarco dei microchip americani. Nell’ottobre 2022, infatti, gli Stati Uniti hanno imposto ampie restrizioni all’esportazione di chip avanzati e di attrezzature per la produzione di chip.
Questa mossa, che fa seguito alle misure adottate dalla prima Amministrazione Trump per limitare l’accesso della Cina a semiconduttori all’avanguardia, ha dato il via a un’ampia iniziativa per escludere la Cina dai processori per computer più potenti al mondo, ovvero gli input necessari per sviluppare e gestire sofisticati sistemi di Intelligenza artificiale che potrebbero essere utilizzati per alimentare armi autonome, condurre attacchi informatici di massa e aumentare la raccolta di informazioni.
I funzionari sapevano che i controlli sulle esportazioni statunitensi non potevano avere successo da soli. La catena di approvvigionamento dei semiconduttori è globale e Paesi come Giappone, Paesi Bassi e Corea del Sud producono attrezzature, materiali e componenti fondamentali per la produzione di chip. Per ostacolare davvero il progresso della Cina sarebbe necessario convincere questi Paesi ad agire di concerto con gli Stati Uniti.
I funzionari della prima Amministrazione Trump hanno esercitato pressioni con successo sugli olandesi affinché interrompessero la vendita delle loro attrezzature per la produzione di chip più avanzati alla Cina. Sulla base di questo sforzo, l’Amministrazione Biden ha avviato una sistematica pressione diplomatica per limitare l’accesso della Cina alle tecnologie avanzate. Questo perché gli Usa non avevano nessuna intenzione di perdere la loro supremazia tecnologica, messa in serio pericolo dagli sforzi, in buona parte andati a buon fine, di Xi Jinping di voler diventare una superpotenza anche in quel campo e non solo limitarsi a essere la fabbrica del mondo.
Tutto questo, occorre dirlo, ha preso avvio grazie alle politiche estere miope e scellerate delle Amministrazioni democratiche di Clinton prima e Obama poi, diventati delle vere icone per le sinistre di mezzo mondo, Italia in testa. I due Presidenti, infatti, hanno commesso, quantomeno un gravissimo errore di sottovalutazione del grande Paese asiatico, convinti che potesse essere utile come produttore a basso costo di prodotti di consumo, e non immaginando invece gli sviluppi che avrebbe fatto in campo tecnologico.
La Cina, grazie anche al sostanziale laissez faire degli Usa, ha saputo realizzare, dai primi anni ’90 a oggi, un enorme surplus commerciale con il resto del mondo (992,16 miliardi di dollari, secondo le stime relative al solo 2024, di questi oltre 331 miliardi solo con gli Usa). Nel solo primo trimestre del 2025 il surplus commerciale con gli Usa è stato di oltre 75 miliardi di dollari.
Ecco allora che la politica dei dazi, analizzando queste cifre, assume un carattere assai differente e se può essere criticata forse nella forma, nella sostanza rimane comunque un’opzione certamente non da scartare a priori, considerando poi che la Cina li pratica da decenni. Resta da vedere se poi effettivamente funzioneranno, e come potranno essere assorbiti dalle grandi multinazionali a stelle e strisce.
“Le esportazioni sono state la ‘salvezza’ dell’economia cinese e, se i dazi persistono, le esportazioni verso gli Stati Uniti potrebbero diminuire da un quarto a un terzo”, ha dichiarato, a marzo, alla BBC Harry Murphy Cruise, economista di Moody’s Analytics.
Ma è anche vero che in certi campi, come per esempio quelli legati alla transizione energetica, è impossibile sostituire i prodotti cinesi, visto il quasi monopolio raggiunto dalla Cina, per esempio, nella produzione di pannelli solari. E poi Pechino ha ormai il controllo sul 70% delle fondamentali terre rare, da cui derivano quei materiali preziosissimi, per realizzare molti prodotti tecnologici, come i microchip o i componenti fondamentali del settore automotive.
Non è un caso che una delle prime risposte cinesi al rialzo dei dazi americani, sia stato proprio lo stop alle esportazioni dei minerali delle terre rare. Ecco allora che lo scontro frontale rischia di essere un problema per tutti.
L’agenzia Fitch ha tagliato le stime di crescita del Pil mondiale al 2% e questo potrebbe essere solo l’inizio. L’Europa in tutto questo rischia di trovarsi nel mezzo e pagare il conto più salato. Come al solito in questo ogni Paese sembra, al di là delle parole di circostanza, muoversi pro domo sua.
La mossa del Premier spagnolo Pedro Sanchez di volare a Pechino, per esempio, oltre a essere criticabile nei tempi, a pochi giorni dal fondamentale incontro della Premier italiana a Washington con Trump, per promuovere futuri accordi per la Spagna e per tutta l’Europa, è stata vista assai male da parte dell’Amministrazione americana.
Trump ha già minacciato di colpire con ulteriori dazi aggiuntivi chi farà accordi con i cinesi. Perché pensare di sostituire il mercato interno cinese con quello americano, come sostengono alcuni esponenti della sinistra, Giuseppe Conte in testa, potrebbe essere una scelta azzardata, dal momento che finora le politiche di stimolo al consumo interno da parte cinese sono state fallimentari.
Ecco perché allora la mossa di Giorgia Meloni di uscire dagli accordi sulla via della Seta, siglati da Conte nel 2018, potrebbe rivelarsi una mossa azzeccata, non solo in vista del bilaterale con Trump, ma anche in un’ottica futura. Perché il vero obiettivo della Cina non pare proprio essere quello di aprirsi al mondo, ma invece quello di diventarne la dominatrice, per il momento solo economica, e probabilmente, in un futuro non troppo lontano, anche militare.
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