“L’associazionismo cattolico c’è ma si smarca da polemiche e partiti”. La prima pagina di Avvenire, il quotidiano dei vescovi italiani, è stata onesta alla lettera nell’anticipare ieri mattina una postura che è stata di molti altri alla manifestazione per l’Europa di Piazza del Popolo a Roma. Visibile – anche se non del tutto trasparente – è stata certamente la movenza “smarcante” di Romano Prodi, dietro le quinte di uno show tanto multicolore quanto rituale, tra concertone del Primo Maggio e Che tempo che fa.
Il grande vecchio cattodem aveva risposto senza se e senza ma – sulla prima pagina di Repubblica – alla convocazione di Michele Serra. Ma questo non gli ha impedito di bussare, alla vigilia, alla porta di Marco Travaglio, gran detrattore pentastellato dell’iniziativa.
E un “colloquio” in extremis ha partorito sul Fatto Quotidiano – in tasca o nello zaino di molti in una piazza ufficialmente “per l’Europa”– una cover in cui il Professore accusava la “Signora Europa”, Ursula von der Leyen, sua successora a Bruxelles. Che “non ha fatto nulla per la pace” e ha invece rovinato la manifestazione d’esordio del fronte democratico italiano, annunciando in corsa un piano di riarmo senza precedenti.
Eppure era stato proprio nel nome di “Ursula” che Prodi aveva personalmente lanciato l’euro-ribaltone italiano del 2019. L’operazione – attivamente sostenuta dall’Europa franco-tedesca – ebbe come obiettivo l’innalzamento di un “cordone sanitario” contro la Lega che si era affermata al voto politico dell’anno prima e aveva poi stravinto il voto europeo del 2019.
Il ribaltone – sorvegliato passo passo dal Quirinale di Sergio Mattarella – creò per la prima e finora unica volta in Italia una maggioranza M5s-Pd, quella che peraltro aveva già tentato – senza successo – il segretario Pd Pierluigi Bersani all’indomani della “vittoria mutilata” del 2013. Dodici anni dopo, il centrosinistra (Pd, M5s, Avs e perfino Potere al Popolo, ieri in una piazza separata a Roma) pare ancora allo stesso punto, dopo aver incassato nuove sconfitte alle politiche 2022 e alle europee dell’anno scorso.
E se il “girotondo” di ieri aveva un obiettivo politico, questo era con molta evidenza di saggiare per l’ennesima volta il campo Ursula di sei anni fa. Il fine chiaro era e resta quello di avviare una lunga campagna elettorale verso il 2027, con l’ambizione di “ribaltare” il governo Meloni, stavolta per via democratica e non per scorciatoie istituzionali o giudiziarie.
Le premesse, ieri a Roma, non erano d’altronde incoraggianti: proprio a partire da una bandiera tematica molto problematica. Nella Ue di oggi le sinistre un tempo dominanti sono finite relegate dagli elettori in campi sempre più ristretti. E l’Europa tecno-istituzionale, fra Bruxelles e Strasburgo, appare invecchiata, divisa e disorientata quasi quanto le sue sinistre.
A parte la Spagna – dove Pedro Sánchez ha ribaltato l’ultima sconfitta elettorale grazie all’appoggio dei separatisti catalani – fra i Ventisette è rimasta solo la Danimarca a essere guidata dai socialdemocratici: un brand, quello “groenlandese”, utilissimo per la crociata identitaria anti-Trump, assai meno per le politiche di progressiva chiusura securitaria di Copenaghen ai migranti.
Poco lontano la Svezia di Greta Thunberg e dei venerdì verdi in tutt’Europa ha votato l’estrema destra come forza determinante per la maggioranza di governo ed è entrata di corsa nella Nato. Idem nell’Olanda co-fondatrice della Ue, a lungo simbolo di una civiltà europea frugale, libertaria e green: gli elettori hanno portato al governo l’estrema destra xenofoba, con l’ex capo dell’intelligence sulla poltrona di premier tecnico. E l’ex premier liberale Mark Rutte è stato arruolato dai governi europei per guidare la Nato, ovvero strutturare il neo-militarismo continentale nella fase di ritirata degli Usa prospettata da Trump.
L’Europa di oggi è quella di Emmanuel Macron, firmatario del “Trattato del Quirinale” con Mattarella e Draghi e oppositore ferreo dell’Italia di Giorgia Meloni; ma oggi delegittimato dagli elettori in patria e guerrafondaio nucleare in Europa, anzitutto sul fronte ucraino.
L’Europa di oggi – smembrata da Brexit – è quella in cui il premier laburista Keir Starmer vuole tagliare il leggendario welfare britannico per finanziare droni sempre più carichi di IA, mettendosi a capo dei “volenterosi” in stato di guerra permanente con la Russia.
L’Europa di oggi è quella del futuro cancelliere tedesco Friedrich Merz, leader di una Cdu poco cristiana e molto conservatrice, molto diversa da quella di Helmut Kohl. Fu quest’ultimo – in nome dell’Europa, all’epoca guidata da Prodi a Bruxelles – a riannettere la Germania ex comunista: quella che però oggi Merz è nuovamente chiamato a riunificare perché finita sotto il controllo dell’estrema destra di AfD.
Un fallimento storico di cui l’avanzata delle destre – il bersaglio collettivo del girotondo italiano di ieri – è l’effetto, non la causa. Una delle cause prime è stata sicuramente l’europeismo ideologico, élitario ed egemonico “di Ventotene” – riproposto ieri da Repubblica a mo’ di libretto maoista – sempre contrapposto a quello politico di Alcide De Gasperi (non a caso citato da von der Leyen davanti all’europarlamento).
La coalizione del futuro governo a Berlino – ormai tutt’altro che Grosse – vedrà intanto una Spd bocciata nelle urne a rimorchio forzato di una Cdu orientata a destra. I verdi hanno faticosamente negoziato un tiepido appoggio esterno, facendosi piacere che una parte dei mille miliardi di euro che Merz intendere impegnare per dieci anni in via sovranistica (deficit/debito tedesco per spesa tedesca) vadano a salvare anche migliaia di posti di lavoro alla Volkswagen, riconvertita dall’auto elettrica alla produzione di carri armati per la Wehrmacht.
È comprensibile che questa Europa piaccia poco all’associazionismo cattolico italiano, anzitutto a quello che calca piazze e cammini per la pace. Potrebbe invece piacere a Maurizio Landini – ieri in piazza con la Cgil – e all’editore di Michele Serra, il presidente di Stellantis John Elkann. Il sabato in piazza ha invece chiarito che in fondo questa Europa non piace alla maggioranza di quella sinistra che pure ieri ha marciato “per” essa.
Alla fine si è inteso che non piace neppure a Prodi, che sulla Stampa –sempre edita da Elkann – ha insistito negli ultimi giorni perché la Ue volti le spalle agli Usa e guardi con decisione alla Cina. Ed è anche da questa angolatura che va forse osservata la mossa del cavallo verso il Fatto, quasi house organ di “Giuseppi” Conte, l’ex premier M5s-Pd, pure lui cattodem, intervistato venerdì mattina da Avvenire sulla “follia del riarmo” (giovedì, invece, il Fatto aveva riservato un’intera pagina a un intervento ambientalista del cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei).
Se M5s – così anti-europeista da essere stato il puntello di von der Leyen 1 – è irrinunciabile al cantiere di un nuovo Ulivo a caccia di chance elettorale, è vero anche che il primo protocollo tra Italia e Cina sulla Via della Seta venne firmato a Roma dal premier Conte 1, personalmente, con il presidente cinese Xi Jinping. Era il maggio 2019. E se c’è un passaggio-chiave nella narrazione d’opposizione sulla “sottomissione” di Meloni agli Usa (a maggior ragione a quella di Trump), questo è stato il congelamento di quegli accordi da parte del governo in carica, peraltro corretto nell’estate 2024 con l’avvio di un protocollo alternativo con la Cina.
Anti-americanismo (anti-capitalismo, anti-sionismo) irriducibile e simpatia verso la Cina iper-statalista (quella di oggi come quella di ieri, forse con più trasporto rispetto al socialismo reale sovietico): ecco i valori “emozionali” che nella piazza di ieri erano probabilmente più trasversali e convinti del liberal-europeismo da manuale, alla fine simbolo di una transizione incompiuta per la sinistra italiana dopo la caduta del Muro.
Perfino il contrasto all’odio antisemita – pretesto mediatico della più recente campagna identitaria della sinistra a diretto supporto di Stefano Bonaccini ed Elly Schlein nel voto 2019 per l’Emilia-Romagna – appare oggi quasi inservibile: anche se nella scaletta della “piazza per l’Europa” uno spazio di riguardo obbligato è stato riservato alla senatrice a vita Liliana Segre. Però in molte bandiere arcobaleno, ieri, si distinguevano in filigrana quelle palestinesi.
Sullo sfondo di canzoni e recite, mini-comizi e ospitate scorrevano intanto più che virtualmente le immagini della vittoria del 1996, celebrata proprio in Piazza del Popolo. Fu l’unica volta in cui il centrosinistra ha riempito per davvero le urne e non solo le prime pagine o le piazze.
È avvenuto quando Prodi si è proposto come “cocchiere” cattolico democratico di una sinistra ancora anti-americana, non più filorussa ma mai anti-cinese, e il centrosinistra ha potuto lanciare per l’ultima volta in via democratica l’anatema contro un “Cavaliere nero” che aveva esordito sdoganando il neofascista Gianfranco Fini.
In un’Italia non più confinante con la cortina di ferro e appena spazzata da Tangentopoli, una ex sinistra Dc ancora vitale riuscì a irreggimentare l’ex Pci e la galassia della sinistra estrema. Fu capace di ribaltare la sconfitta del 1994 e di riconquistare Palazzo Chigi all’Italia “cattocomunista”, anche se non durò molto (la Ditta di Massimo D’Alema pretese presto di avere il suo momento).
Però non c’è dubbio che quel test – con l’appoggio rilevante del Quirinale di Oscar Luigi Scalfaro – abbia funzionato. Berlusconi dovette attendere cinque anni per tornare al governo e in quel periodo Prodi privatizzò tutti i gioielli nella cassaforte statale (Telecom fece a tempo a essere oggetto di un’Ipo prodiana orientata alla famiglia Agnelli e poi della “madre di tutte le Opa” targata D’Alema).
In quella stagione, Prodi – oggi di casa a Pechino – fu per un periodo consulente della Goldman Sachs, quella “del Britannia”, di cui Mario Draghi diventò poi top manager in Europa.
In un’Italia democratica non si può certo rimproverare all’85enne ex leader dell’Ulivo di riproporre il suo “format 96” su qualsiasi piazza, sotto qualsiasi stendardo politico-mediatico di volta in volta utile, pur di strappare voti al centrodestra e rianimare i disamorati della democrazia elettorale.
A maggior ragione quando – certamente a lui e verosimilmente anche a Mattarella – la guida del Pd appare incerta e inefficace. È pur vero che Elly Schlein è un prodotto della Bologna “cattocomunista” di Prodi, ma ha chiaramente deluso attese e mire – quanto meno quelle del Professore – nonostante discrete performance elettorali.
È così che Prodi ora appare votato alla riformazione di un contenitore degasperiano (che “dal centro guardi a sinistra”): se non un partito, almeno una corrente capace di ribaltare il Pd, attirando altre forze centriste e sottraendo a Schlein le regia delle alleanze di un futuro cartello elettorale con M5s e la sinistra antagonista.
Se il girotondo di Serra si rivelerà di qualche effetto lo sarà come catalizzatore – per ora potenziale – di questo confronto. Certamente ieri in piazza non c’era il milione e mezzo di persone che diedero l’ultimo saluto a Enrico Berlinguer. Fu nella sua memoria che alle elezioni europee di quarant’anni fa il Pci superò di un soffio la Dc (assieme raccolsero i voti di due italiani su tre). Prodi, 45enne, era già stato ministro ed era presidente dell’Iri.
Serra, trentenne, era già una firma dell’Unità e preparava Tango e Cuore, oggi “madeleines” di culto della sinistra intellettuale. Meloni – da due anni prima donna premier in Italia – aveva sette anni. Schlein – da due anni prima donna a guidare il Pd (nessuna donna ha mai guidato in precedenza né il Pci né la Dc) – non era neppure nata.
PS: nella scaletta del girotondo hanno trovato spazio il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri (europarlamentare Pd paracadutato al Mef nel ribaltone 2019) e quello di Napoli, Gaetano Manfredi, dem al Miur nello stesso Conte 2. Nessun affaccio per Beppe Sala, rieletto per il centrosinistra a Milano sotto le insegne “verdi europee”.
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