Vaccinazioni, Italia a colori, caos a 5 Stelle, i guai dei magistrati: a sfogliare le prime pagine dei giornali di ieri si fatica a trovare qualche notizia riguardante il governo Draghi. Giusto qualche finestrella con le indiscrezioni sulla riforma della giustizia che sarebbe allo studio della ministra Marta Cartabia e le spigolature sul primo impegno internazionale del premier, collegato a distanza al vertice G7. “Prima faremo e poi comunicheremo”, aveva imposto Mario Draghi al primo Consiglio dei ministri. Una rivoluzione copernicana rispetto agli anni di Giuseppe Conte e del suo portavoce Rocco Casalino, quando il profluvio comunicativo sui social e in televisione nascondeva il vuoto operativo.
Fino a un paio di settimane fa, tutto quello che veniva detto copriva quello che non veniva fatto. Ora la musica è cambiata. Ma finché il governo non entrerà a regime rimarrà un vuoto – quello della comunicazione – che viene riempito non più da dirette Facebook o messaggini alla cerchia dei giornalisti, ma dal vecchio mondo legato al periodo contiano che stenta ad adeguarsi al cambio di passo, o che non intende in nessun modo farlo.
È un mondo molto variegato. Ne fanno parte, per esempio, i virologi, ormai abituati a fare i prezzemolini in ogni spazio televisivo. Lo compongono anche frange del vecchio governo, come per esempio la struttura che ruota attorno al ministro Speranza e al Comitato tecnico-scientifico: domenica scorsa hanno chiuso senza preavviso gli impianti di sci, poi però per qualche giorno sono rimasti zitti, quasi che qualcuno gli abbia tirato le orecchie. Ci sono i “chiusuristi” a ogni costo, come il governatore pugliese Emiliano e il suo assessore Lopalco, che al primo focolaio scolastico hanno sprangato – a ogni buon conto – gli istituti di ogni ordine e grado in tutta la regione, con tanti saluti alla didattica in presenza e alle riaperture invocate da tutti. In Lombardia invece si è proceduto a piccole chiusure localizzate: poiché sono 9 i ministri che arrivano da quella regione, a Milano e dintorni dev’essere arrivata qualche dritta su come ci si deve comportare d’ora in poi.
D’improvviso, questo mondo di chiacchiere e di chiusure appare superato, ormai privo della regìa comunicativa di Palazzo Chigi. Ma finché il nuovo non avanza, il vecchio trova spazi da occupare. C’è poi un altro fronte che scalpita: è quello che fa capo al Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, al partito giustizialista delle toghe e al Movimento 5 Stelle degli inizi, quello dei “vaffa”, della lotta alla casta e della guerra alla politica. Questa galassia aveva raggiunto l’apoteosi con un capo del governo e un guardasigilli grillini, e ora si ritrova orfana. Il partito dei pm militanti ha perso, d’un colpo, sia la sponda politica più forte, cioè i 5 Stelle delle origini, sia la principale stanza del potere a Palazzo Chigi, sia l’orchestrazione della comunicazione. E la magistratura si era già fatta erodere gran parte della credibilità dal caso Palamara.
Paolo Mieli, un osservatore molto attento a questi movimenti (era il direttore del Corriere della Sera quando scoppiò Mani pulite a Milano e fu lui a dare la notizia dell’avviso di garanzia a Silvio Berlusconi premier), ha già messo in guardia Draghi: rischia di essere preso di mira dai pm se interviene sulla giustizia. “Di sicuro dalle parti della magistratura militante sta ribollendo qualcosa”, considera Mieli. Per decenni, dall’“editto” del pool milanese contro l’allora guardasigilli Conso del 1993, queste toghe hanno dettato l’agenda alla politica: ora le cose potrebbero cambiare anche per loro. Una frangia del vecchio mondo che si agita mentre il nuovo è ancora in gestazione.
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