Secondo calendario, la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza (Nadef) con annesso Programma nazionale di riforme (Pnr) sarebbe dovuta essere stata approvata dal Consiglio dei ministri il 27 settembre al fine di permettere una discussione in Parlamento e una risoluzione delle Camere di approvazione e/o indirizzo. Sulla base della risoluzione, il Governo avrebbe dovuto approvare entro il 10 ottobre (data ancora non cambiata) il Documento programmatico di bilancio triennale (Dpb) da inviare entro la mezzanotte del 15 ottobre alla Commissione europea e all’Eurogruppo, termine sancito da impegni assunti da tutti gli Stati dell’Unione europea.
Venerdì 27 non c’è stata traccia di Nadef e di annesso Pnr, che dovrebbero arrivare sul tavolo del Cdm convocato per oggi alle 18:30. I portavoce della presidenza del Consiglio e del ministro dell’Economia e delle Finanze fanno intendere che il ritardo è dovuto all’esigenza di negoziare per un paio di giorni in più con le autorità europee quale margine di flessibilità avere nell’applicazione dei parametri dei trattati e degli accordi intergovernativi in una fase, come l’attuale, di stagnazione e di esigenza di dare impulso al ciclo economico.
È una spiegazione che non convince, dato che quest’anno, a differenza del 2018, non ci sono differenze sostanziali nelle stime del quadro macro-economico: la crescita dell’Italia nel 2020 è prevista tanto da Roma quanto dai centri studi internazionali e dalla stessa Commissione attorno allo 0,4-0,6%. È anche plausibile che, nonostante l’elevato debito pubblico (secondo le ultime stime quasi al 135% del Pil), tra Roma e Bruxelles ci sia consenso sull’esigenza, per stimolare l’economia, di un indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni sul 2% del Pil. Gli investimenti pubblici non richiedono flessibilità europea perché, come già documentato su questa testata, c’è ampio spazio per l’avvio di progetti pronti per i quali i finanziamenti sono già stati stanziati e si devono espletare unicamente adempimenti di tipo amministrativo.
Il problema di fondo è che i quattro partiti/movimenti di Governo (M5S, PD, LEU, Italia Viva) hanno la cultura della spesa e hanno fatto agli elettori promesse che comportano aumenti spesa di parte corrente (e un po’ meno di spesa per investimenti), mentre proprio a metà della settimana scorsa sono stati raggelati da un rapporto di via Venti settembre secondo cui negli ultimi due esercizi (che sono presentati come anni di freno alla spesa) la spesa di parte corrente è aumentata del 5% toccando i 1.750 miliardi di euro, ossia sfiorando la metà del Pil. Quindi, il fine settimana è stato non tanto di trattative con le autorità europee, quanto di affannosa ricerca di copertura e di negoziati all’interno del neo quadripartito su quali spese promesse ai rispettivi elettorati potessero essere differite di un anno o due. In pasto ai giornalisti sono state propinate idee di riforme tributarie, di lotta all’evasione e via discorrendo.
Emergono due considerazioni. Una a carattere procedurale e una a carattere sostanziale. Sotto il profilo procedurale, non è il caso di prendere il coro per le corna e unificare Nadef-Pnr e Dpb? Mantenendo ferma la data del 15 ottobre per l’invio del documento all’Ue, il Nadef-Pnr e il Dpb potrebbero essere inviati congiuntamente al Parlamento, previa approvazione del Consiglio dei ministri, per dibattito prima di trasmetterli all’Ue. In breve, come si faceva in passato per la Relazione Previsionale e Programmatica che il 30 settembre di ogni anno raggiungeva il Consiglio dei ministri con il Disegno di Legge Finanziaria. Ci sarebbe un vantaggio di merito dato che il Dpb, in ossequio alle procedure europee, contiene tabelle triennali su entrate e uscite delle pubbliche amministrazioni, saldi, indebitamento, debito, indicatori di economia reale e quant’altro. In breve, un programma triennale di politica economica, quale quello che in questi giorni è stato invocato da diversi economisti, tra cui l’ex ministro dell’Economia e delle Finanze Pier Carlo Padoan, e quale quello che piacerebbe all’attuale ministro dell’Economia e delle Finanze Roberto Gualtieri.
Nello specifico, i leader e i capi delegazioni del quadripartito di governo potrebbero mediare su un arco triennale e indicare ai loro elettori le spese promesse ma differite di uno o due anni, a causa del destino cinico e baro immortalato dall’ex Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat.
Sul piano sostanziale, la ricerca di coperture invocando riforme tributarie atte a combattere l’evasione ha qualcosa di ridicolo per due ragioni. In primo luogo, una riforma tributaria è un problema complesso che non si affronta in un weekend alla ricerca di idee brillanti da twittare qua e là. L’ultimo tentativo coerente che io ricordi è stato fatto nel lontano 1994 in un libro bianco dell’allora ministro delle Finanze Giulio Tremonti e del suo consigliere economico Giuseppe Vitaletti basata su tre principi: spostare la tassazione dalle persone alle cose, dal centro alla periferia, dal complesso al semplice. Come sappiamo, allora il Governo durò poco e il progetto (che richiedeva comunque di essere discusso e metabolizzato) venne travolto da problemi urgenti e sparì dall’ordine del giorno. Aveva l’obiettivo di giungere a un fisco più moderno e più equo, ma non tale da generare maggior gettito.
In questo intenso (e un po’ folle) weekend non si è tenuto conto che gli espedienti per la lotta all’evasione di cui si parla, se efficaci farebbero aumentare quella pressione tributaria (già al 43% del Pil) che lo stesso quadripartito promette di voler ridurre. Pare che si sia dimenticata l’aritmetica.