Siamo alle solite. La distanza sostanziale tra la Lega di Matteo Salvini e il Movimento 5 Stelle di Luigi Di Maio è siderale, e si rivela nelle continue diatribe tra “peones”: ma talvolta emerge anche al massimo livello. Come nel caso di Vincenzo Spadafora che ha scagliato il suo anatema contro la “deriva sessista” dell’Italia alimentata secondo lui dal leader leghista, che avrebbe “aperto la scia dell’odio maschilista” contro la comandante Carola Rackete: una critica definita dall’inquilino del Viminale “semplicemente inaccettabile”.
Il fatto è che il collante tra i due partiti di maggioranza è sempre più debole, ma nessuno sa quando si scioglierà. La solidarietà interpersonale tra Salvini e Di Maio c’è, e miracolosamente, e un po’ inspiegabilmente, resta. La distanza tra le due rispettive basi elettorali – che poi sono più di due, perché ciascuna si compone di variopinte sotto-basi – non potrebbe essere più acuta. Non vanno più d’accordo su niente: immigrati, tasse, lavoro… niente.
La domanda che, dopo il 27 maggio, Salvini si è sentito rivolgere più speso è stata: “Scusa, Matteo: ma perché non stacchi la spina al governo?”. Domanda lecitissima, se si pensa che il grado di consenso che il leader leghista riscuote nelle regioni di base, di predominio, non deve essere considerato stabile, sono le stesse regioni dove la Lega ante-Salvini era piombata ai minimi storici, ed è un consenso dunque condizionato ai risultati che diventa precario in mancanza di essi. Però: chi dovrebbero mai votare, questi elettori leghisti, se non la loro Lega? Mentre il tempo – ha sempre pensato Salvini – gioca contro i Cinquestelle che si parcellizzeranno fatalmente fino a perdere quella pochissima identità politica e addirittura personale che hanno. E quindi… qualcosa accadrà.
Salvini non li sopporta più, questi grillini. Li rispetta come si rispetta il cane di un amico: a prudente distanza e con museruola. Con circospezione permanente. Lui ripete come un mantra: “Finché si lavora, si va avanti”, ma sa che tanti suoi sostenitori lamentano che, appunto, si lavori poco: non per colpa diretta del Capitano, pensano, ma sta di fatto che il Governo già lavora poco. E allora ecco i segnali di penultimatum che il leader leghista manda direttamente a Di Maio, come quello dopo il caso Spatafora: “Ma si può stare al governo con chi ti insulta dandoti del razzista, sessista, fascista, omofobo? Se non le dimissioni, pretendo almeno le scuse”, gli ha scritto in un sms. Figuriamoci.
Su questo livello di tensione e incomprensione già estremo, che per tanti versi da solo basterebbe a giustificare le elezioni anticipate, si è aggiunto nelle ultime ore il caso dei rubli di finanziamento illecito alla campagna elettorale europea leghista che uno dei più stretti collaboratori di Salvini, Gianluca Savoini, avrebbe discusso all’Hotel Metropol di Mosca nei mesi scorsi con tre interlocutori russi secondo un audio pubblicato ieri da Buzzfeed la cui sostanza è stata immediatamente smentita dallo stesso Salvini: “Mai preso un rublo da Mosca”.
Una dinamica analoga – voci su mercanteggiamenti di sostegni finanziari con Putin – ha costretto l’austriaco Heinz Christian Strache qualche mese fa a dimettersi dal governo austriaco: qui non ce ne sarebbe neanche bisogno, perché Savoini al governo non c’è… Ma l’audio sembra chiaro – sembra: perché risale a molti mesi fa e a un naso fino può anche puzzare di falso digitale – e certo infastidisce Salvini, ma soprattutto contribuisce a destabilizzare il già tremolante quadro politico italiano, a tutto vantaggio del nutrito fronte di interlocutori e sedicenti partner internazionali del nostro Paese che nel mondo hanno tutto l’interesse economico e commerciale a mantenere l’Italia in ginocchio.
Dunque una brutta estate dopo una brutta primavera. L’asse Lega-Cinquestelle è come minato da una ruggine interna che la rende pericolante e che prima o poi la farà spezzare. Questo lo sanno tutti, anche chi più lo nega, e destabilizza tutto: anche se poi pure si sa che gli interessi a restare uniti e governare ancora alla meno peggio le tante opportunità che derivano dal potere – compresi gli emolumenti parlamentari che lo status fa intascare mensilmente a un Parlamento composto per quasi due terzi da prime-nomime – beh, sono interessi ancora più forti…