La Meloni ha dichiarato di voler cambiare la legge elettorale, introducendo un sistema proporzionale e un premio di maggioranza. Ecco il suo vero piano
Siamo a metà legislatura e la maggioranza si sta cominciando ad agitare, più delle opposizioni, sul tema della legge elettorale, mentre è ancora in ballo la riforma costituzionale della forma di governo con il cosiddetto “premierato” (che “premierato” non è).
L’idea sembra quella di anticipare una legge elettorale che abbia i tratti principali di un meccanismo elettorale strettamente connesso all’ipotesi di riforma voluta dalla Meloni cui nessuno, dentro il centrodestra, sembra muovere delle contestazioni.
In primo luogo chiariamo quale sia la differenza tra il vero premierato e il governo del Presidente del Consiglio che ci propone il centrodestra.
Nel premierato (con questo termine si intende quello inglese e, in parte, anche il cancellierato tedesco) la legge elettorale cerca di fare esprimere agli elettori, sia pure con sistemi non proporzionali o non esattamente proporzionali (come in Germania), una maggioranza di governo, secondo regole e convenzioni definite ex ante e ben note agli elettori.
Nel caso del governo del Presidente del Consiglio, invece, la legge elettorale contiene giocoforza – lo si comprende dalle modifiche che si vogliono apportare all’art. 92, comma 3, della Costituzione (“La legge disciplina il sistema per l’elezione delle Camere e del Presidente del Consiglio, assegnando un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio, nel rispetto del principio di rappresentatività e di tutela delle minoranze linguistiche”) – tutti i presupposti per manipolare il voto popolare per costruire attorno alla figura del candidato Presidente del Consiglio una maggioranza di governo.
Chiunque può vedere la differenza e, se dotato di buon senso, anche il pericolo verso questo lento scivolamento delle democrazie occidentali verso forme autocratiche o, nel migliore dei casi, post-democratiche.
Ma che senso ha il voler anticipare una legge elettorale di questo genere, con l’indicazione del leader di coalizione, e un meccanismo collegato ad un forte premio di governabilità?
È noto che il nostro corpo elettorale è sostanzialmente diviso a metà, tra centrodestra e centrosinistra; è così sostanzialmente dal 2006 (dai tempi, cioè, della legge Calderoli) e, salvi i casi in cui il bipolarismo è stato alterato – come nel 2013 e nel 2018, per via del tripolarismo innescato dal M5s –, sostanzialmente il risultato elettorale è dipeso da una manciata di voti.
Questa condizione non si può scongiurare nelle prossime elezioni e, a meno che le opposizioni di centro e centrosinistra non decidano di andare in ordine sparso, come nel 2022, la possibilità di ottenere un secondo mandato (questo è ovviamente l’obiettivo del centrodestra) può risultare molto aleatoria.
Anticipare la legge elettorale sulla riforma costituzionale della forma di governo dovrebbe servire a parare l’eventuale disastro che potrebbe sortire il referendum costituzionale se impedisse alla riforma di entrare in vigore; oppure, addirittura, a spostare alla prossima legislatura l’approvazione della riforma stessa, per fare evaporare l’“effetto Mattarella”.
Si voterebbe, infatti, nel settembre del 2027 per il rinnovo delle Camere e il presidente Mattarella scadrebbe ad inizio 2029. Ma in caso di referendum, poiché la riforma tocca i poteri del presidente della Repubblica e la sua figura oggi è più popolare di quella della presidente del Consiglio, una battaglia referendaria contrapporrebbe idealmente la Meloni a Mattarella, con la conseguente accusa alla prima di volere “attentare” alle prerogative del capo dello Stato. Uno scontro che la vedrebbe perdente insieme alla riforma.
Inutile dire che una legge elettorale implica una disciplina complessa, fatta di molti aspetti diversi che concorrono a tracciare il meccanismo elettorale. Ora noi non sappiamo molto di quello che passa nella testa dei capi politici del centrodestra, salva la fugace dichiarazione sulle preferenze della Meloni, che ha già fatto storcere il naso a FI e alla Lega, per cui è difficile potere esprimere un giudizio compiuto.
Al momento si possono solo formulare due avvertenze.
La prima è che non è un bene anticipare la legge elettorale rispetto alla riforma costituzionale. L’ultimo che ci ha provato è stato Renzi e sappiamo come è finita, per lui e per la sua legge elettorale. Infatti, con le regole costituzionali in vigore, il cammino di una riforma elettorale non può andare nella direzione che piacerebbe alla Meloni; lo hanno spiegato molto bene le due sentenze della Corte costituzionale, la n. 1 del 2014 (sulla legge Calderoli) e la 35 del 2017 (sull’Italicum): vi sono pochi spazi per premi di governabilità consistenti e per sistemi proporzionali che subiscano particolari alterazioni.
Anzi, la Corte indica alcune regole compatibili tra loro, come la clausola di sbarramento (ragionevole), il voto di preferenza per scegliere tra i candidati e il rispetto del principio di rappresentatività, che non possono assicurare risultati strabilianti in termini di governabilità. Del resto tutte le forze politiche rifiutano un sistema elettorale maggioritario di collegio e sono contrari a sacrificare i cosiddetti “cespugli”, di cui molti governi del recente passato (da entrambi i lati) sono stati vittime.
La seconda avvertenza è che l’approvazione di una legge elettorale in democrazia non dovrebbe essere un atto di forza di una data maggioranza, anche perché anche la più estesa maggioranza parlamentare è sempre una piccola minoranza nel Paese, per via soprattutto dell’astensionismo crescente. Di conseguenza, la legge elettorale, che segue – secondo Costituzione – un iter approvativo particolare (art. 72 Cost. ultimo comma), dovrebbe essere sempre il frutto di un accordo tra maggioranza e opposizione, o, quanto meno, tra i maggiori partiti di maggioranza e di opposizione.
Al momento, perciò, una possibile modifica della legge elettorale in vigore, come atto della sola maggioranza, darebbe la stura ad un conflitto fortissimo nel Paese, con possibili interventi della Corte costituzionale che non potrebbe non ribadire i propri punti di vista.
Diverso sarebbe se ci trovassimo di fronte a nuove regole costituzionali che avessero superato anche il vaglio del referendum. Non perché dovrebbe o potrebbe venire meno la collaborazione tra maggioranza e opposizione, ma perché questa impegnerebbe tutte le forze politiche a dare attuazione alle nuove disposizioni costituzionali sulla forma di governo.
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