È sconcertante scoprire ogni volta dí più quanto la deriva economicistica tutto riducente allo scambio di mercato, anche le relazioni internazionali, sia prevalsa nel mondo intero.
Giorgia Meloni va in Nordamerica e siede nel mediatico salotto ovale con Trump. Ma la partita che lì si gioca allo scoperto è tutt’altro che economica, come si rappresenta, invece, sul palcoscenico dei dazi. Lì il personaggio dominante, infatti, non è Trump, ma è un troneggiante e silenzioso Vance, autore di quel sociologicamente magnifico manifesto elettorale che è Elegia americana.
Il gioco che si dipana, infatti, e che non si racconta mediaticamente, altro non è che una riproposizione di quello che si svolgeva nella sala delle grida della (fu) Borsa Merci di Chicago, dove si tirava su e giù il prezzo dei cereali al suono della campanella. Un gioco reale e non virtuale. Voglio dire, insomma, che in quella riunione tra Meloni, Vance e Trump, con una traduttrice incapace e giornalisti ancora troppo silenti, si rendeva manifesto ciò di cui si trattava e si tratta, ovvero “del commercio come spirito della volontà di dominio nazionale del mondo”… con conseguenze economiche ingenerate più dalla volontà di potenza USA che dallo spirito di mercato.
Bisogna, insomma, rileggere oggi le pagine che Benjamin Constant scrisse in De l’esprit de conquête et de l’usurpation dopo che il fuoco devastò Mosca nel settembre 1812 e il principe Bernadotte di Svezia sognò di insediarsi a Parigi – con Constant come suo mentore intellettuale – come successore di Napoleone. De l’esprit de conquête altro non era, infatti, che uno studio su quella volontà di potenza tra le nazioni che si declinava e si declina ancora oggi come “potenza nazionale attraverso il commercio estero”.
In fondo era lo stesso sentire di un grandissimo pensatore a noi più ancor contemporaneo: l’Albert Hirschman di National Power and the Structure of Foreign Trade, un libro insostituibile per capire ciò che accade oggi. Un libro edito nel 1945, scritto nel corso di una devastante guerra tra imperialismi, e che sarebbe ora di ripubblicare nuovamente (dopo la curatela editoriale che ne fece l’indimenticabile amico Marcello De Cecco scomparso anni orsono).
Constant e Hirschman ci guidano nel sentiero della comprensione di ciò che oggi accade. Quel che interessa a Trump è soddisfare la rivolta anti-woke impersonificata da Vance, prima di qualsivoglia altro interesse economico. Per questo entrambi vedono nella presidente Meloni la rappresentante di una nazione anglosferica da sempre, sin dal suo Risorgimento, oggi per loro indispensabile per espandere la rivolta che sostiene quella volontà di potenza anche nell’Ue e in Europa, grazie alla capacità di manovra ben più ampia e moderna che la presidente italiana rende manifesta, come risulta evidente sol che la si confronti, per esempio, con Marine Le Pen.
Quello che si svolge dietro il paravento dei dazi, dunque, è una lotta – avrebbe detto Thorstein Veblen – tra “classi agiate” l’una contro l’altra armate.
Da un lato, quelle della globalizzazione finanziaria socialdemocratica alla Blair-D’Alema-Cardoso-Clinton che tutto il mondo ha ridotto in ruggine e in stock option (noi ne abbiamo italici scampoli nei padroni politici immobiliari post-socialdemocratici e culture woke che comandano Milano).
Dall’altro, quelle che trovano modo di essere rappresentate nell’organizzazione poliarchico-parlamentare USA e in molte altre nazioni nel mondo intero, grazie al sostegno politico che rendono manifesto delle classi operaie e medie distrutte dalla de-industrializzazione; classi agiate, codeste, che anch’esse derivano dalla rendita fondiario-finanziaria, ma che rappresentano i sentimenti angosciosi del popolo degli abissi: il popolo che viene dalla ruggine e dall’emarginazione e dalla decadenza di status e di cui Trump è la cuspide oligarchico-direttiva.
È ciò che accade da circa un trentennio (i tempi della storia sono lunghissimi), per effetto della dissoluzione dell’URSS, che con la liquefazione del suo Sé escatologico, salvo pochissime eccezioni, ha condotto alla dissolvenza di quella che un tempo era la “sinistra” sociale, politica e ideologica, in un tutt’uno intellettuale, politico e partitico che non si ritrova più in nessun angolo del pianeta.
Oggi è quest’ultima classe agiata a vincere o meglio a combattere – con le sue falangi di massa del popolo degli abissi anti-woke – per far sopravvivere quel popolo. La reazione delle classi agiate che non vogliono, invece, per nulla rappresentare quel popolo degli abissi si fa, però, sentire… e si farà sentire sempre più per via del tracollo borsistico che il sommovimento trumpiano-vanciano provoca.
Il tragico corso della storia in cui si dipana la relazione asimmetrica dello sviluppo del tardo capitalismo in deflazione permanente colloca nel capitalismo finanziarizzato queste classi in lotta – tanto quelle agiate post-socialdemocratiche, quanto quelle rappresentanti di quelle diseredate degli abissi e che di quella valorizzazione finanziaria vivono e sono dipendenti in larga misura per collocarsi in uno status non disprezzato socialmente. Ma se questo status crollasse, per crolli borsistici o depressioni economiche ancor più profonde di quelle che già si sono succedute, il potere trumpiano vacillerebbe sino a crollare.
E ciò è sempre più possibile per le asimmetrie che si sono venute a determinare nel corso degli ultimi trent’anni nella deflazione capitalistica mondiale, con l’entrata della Cina nella WTO nel 2001 e l’espulsione, invece, della Russia (entrata nella WTO solo nel 2011), dal potere capitalistico a guida anglosferica.
Mi spiego. Il popolo degli abissi – che rimpiange e si dispera perché la fabbrica non c’è più – trova un suo nucleo egemonico che lo comanda e lo interpreta nell’America che fabbrica non è più, ma solo mercato; e a questo popolo viene ora indicato come nemico principale la Cina neo-maoista di XI Jinping, oligarca del capitalismo terroristico di massa. Una contraddizione enorme e che si farà drammatica: la Cina è tutta fabbrica e tecnologia innovativa e tradizioni morali insieme; ma la Cina dovrebbe essere – anche per i valori tradizionali che vi imperano (come in Russia del resto) – l’interprete del popolo degli abissi che la fabbrica rimpiange; invece non può esserlo, perché l’a-simmetria della potenza delle nazioni la contrappone, invece, frontalmente agli USA.
È scritto nella storia politica e ideologica del mondo, che è così potente da superare ogni meccanicismo economico: la Cina, infatti, fu inserita nella WTO perché la classe agiata post-socialdemocratica credeva – da vecchi positivisti – che il mercato l’avrebbe guarita dall’ideologia comunista per trasformarla in democrazia capitalista, mentre invece la Cina si è trasformata in quel che è: una nazione e non più un impero, governata da una oligarchia a dominazione terroristica di massa.
La storia dello sviluppo capitalistico non va come vorrebbe la regolazione o la governance di agiata fattura tecnocratica socialdemocratico-neocameralista modello UE: è, invece, anarchica, contraddittoria e sempre conflittuale, a cominciare dalle classi agiate medesime, che da secoli tra di esse lottano. Ecco la trama del viaggio meloniano.
Su cui una nota politica italica bisogna anche dire, fuori dai denti: se la rappresentanza meloniana dell’interesse nazionale prevalente riesce a pesare nel contesto della regia a geometria variabile della burocrazia celeste dell’UE, così come in quella neo-nazionalistica trumpiano-vanciana, va benissimo e bisognerebbe gioirne tutti, opposizione italica politica compresa.
Un tempo, quando i partiti di opposizione esistevano, si faceva così… E non si andava in Cina in visite quasi settimanali che una media potenza anglosferica come l’Italia non dovrebbe permettersi e neppure immaginare – perché tali siamo stati: anglosferici… lo ripeto, sin dal nostro troppo poco studiato Risorgimento – e non filocinesi; come invece, oggi, per volontà di molti accade.
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