Il no dei Paesi arabi alla deportazione dei palestinesi di Gaza ha indotto Donald Trump a fare marcia indietro, dichiarando, durante un incontro con il premier irlandese Micheál Martin, che i residenti della Striscia non verranno espulsi. Ora al centro dell’attenzione c’è proprio il piano arabo, sostenuto dall’Arabia Saudita e da altre nazioni dell’area, che prevede un comitato di tecnici palestinesi che si occupi della prima fase della ricostruzione.
Perché si realizzi, spiega Filippo Landi, già corrispondente RAI a Gerusalemme e inviato del TG1 Esteri, agli USA devono essere date garanzie sulla gestione di Gaza (smilitarizzando Hamas) senza che Trump conceda a Israele l’annessione della Cisgiordania. Una situazione ancora complicata, nella quale gli americani, comunque, sembrano orientati a non concedere il ritorno alla guerra desiderato dal governo Netanyahu.
Gli Stati Uniti hanno troppi interessi in comune con i Paesi arabi per poterli scontentare su questo punto. Come nelle trattative per l’Ucraina, vorrebbero un’ulteriore tregua, per la quale inizialmente hanno indicato un termine di 60 giorni. L’inviato di Trump Steve Witkoff avrebbe appena proposto un nuovo schema per estenderla di diverse settimane.
Dopo il piano della “riviera del Medio Oriente” elaborato per Gaza, Trump ora sostiene che nessun palestinese verrà espulso dalla Striscia. Perché ha fatto retromarcia?
Le ultime dichiarazioni di Trump, che sembrano aprire a comportamenti meno aggressivi, hanno alle spalle non una, ma più motivazioni. La prima è che difficilmente le trattative sull’Ucraina a Gedda, la capitale economica dell’Arabia Saudita, sarebbero potute iniziare e proseguire se, parallelamente, il presidente americano avesse perseguito l’obiettivo dell’espulsione di due milioni e più di palestinesi da Gaza, che non dispiace affatto al governo Netanyahu e ai suoi sostenitori di destra. I sauditi non lo avrebbero accettato.
Ha già rinunciato, quindi, al suo piano?
Trump e i suoi emissari hanno sperimentato quello che il segretario di Stato americano di Biden, Antony Blinken, sperimentò nei mesi successivi al 7 Ottobre, durante il suo tour diplomatico in Medio Oriente: il no secco della Giordania, dell’Egitto e di altri Paesi, compresa l’Arabia Saudita, alla proposta che lui per primo, in via riservata, fece ai leader arabi, cioè di prendersi in carico i palestinesi per evitare un massacro conseguente alla guerra. Anche gli inviati di Trump hanno ricevuto in questi giorni risposte molto nette, dai giordani e dagli egiziani, così come dai sauditi, dai qatarioti e dagli Emirati Arabi Uniti, per i quali attuare la proposta USA avrebbe conseguenze politiche devastanti al loro interno. Quella di Trump è stata una presa d’atto.
Il piano arabo per la ricostruzione di Gaza, quello da 53 miliardi di dollari, diventa ora la base di discussione per trovare una via d’uscita alla guerra?
Per capire la situazione, c’è un elemento in più di cui tenere conto: ai prossimi vertici tra i Paesi arabi è stato invitato il segretario dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), l’unico organismo che potrebbe, almeno in via teorica, mettere insieme Hamas con l’Autorità nazionale palestinese (ANP).
La realizzazione del piano arabo dipende molto da cosa gli americani otterranno dai Paesi che lo sostengono e da Hamas, con cui hanno una trattativa in corso. Una delle ipotesi sul tavolo è il disarmo di Hamas, ma non la sua scomparsa dal territorio, una linea che i ministri di Trump stanno perseguendo, ottenendo dalla controparte un atteggiamento più flessibile. Una cosa, però, è certa: il futuro dei rapporti con Israele è segnato dal destino della Cisgiordania e di Gerusalemme.
Che soluzione si prospetta per la West Bank?
Diventa centrale sapere se Trump consentirà o meno l’annessione a Israele, non più di fatto, ma anche di diritto, dei territori della Cisgiordania. Questo in un momento in cui negli USA c’è una forte ripresa delle proteste contro la politica americana in Medio Oriente, coinvolgendo nuovamente gli studenti delle università. Un problema crescente che non riguarda solo i sostenitori della Palestina, ma investe l’intera comunità liberal americana, per quello che ne rimane.
Trump ha preso le distanze da Zelensky, precedentemente sostenuto a spada tratta dall’amministrazione Biden, e anche dall’Unione Europea, fin qui considerata alleato tradizionale degli USA. Il quotidiano Times of Israel si è chiesto se potrà fare la stessa cosa con Israele. Alla fine, il presidente americano imporrà agli israeliani il piano di pace che vuole lui?
Trump ha fatto capire in modo molto chiaro che non si considera un fornitore di armi degli israeliani e basta. Ha rivendicato un ruolo politico, a tutto tondo, che riguarda l’intera regione mediorientale, comprendendo l’Africa, il Golfo e, in modo diverso rispetto a qualche anno fa, perfino l’Iran. Questo il governo Netanyahu e la destra israeliana lo hanno capito molto bene e sono preoccupati. Detto questo, il segretario di Stato americano Rubio ha dichiarato che nel 2026 gli Stati Uniti daranno altri 2 miliardi di dollari di aiuti militari straordinari a Israele.
Un allontanamento da Israele è impossibile?
Trump terrà conto dei rapporti che ci sono con Israele, che tuttavia non saranno più di subordinazione come quelli di Biden rispetto a Netanyahu.
Tutto ciò potrebbe portare a una rottura all’interno del governo israeliano?
No, al contrario. Con Biden c’era chi propendeva per un’azione militare più forte e chi per una più prudente. Di fronte a Trump c’è un compattamento che porta a elogiarlo, però tutti sanno, Netanyahu, Smotrich, Ben Gvir e perfino l’opposizione di Lapid, che devono fare i conti con lui, perché con il presidente americano non ci sono figli e figliastri. Per questo ci sono analisi che fanno emergere il timore israeliano che possa accadere quello che sta sperimentando Zelensky. Quello che cercano gli israeliani, comunque, è di portare a casa l’annessione della Cisgiordania.
Le trattative per la seconda fase della tregua, invece, come procedono? La proposta USA di un ulteriore cessate il fuoco di 60 giorni può reggere?
Il meccanismo è simile a quello sperimentato al tavolo della trattativa per l’Ucraina, dove hanno proposto 30 giorni di tregua. Lo stesso stanno facendo per Gaza, chiedendo 60 giorni e la contestuale liberazione di 10 ostaggi israeliani. È molto probabile che questo porti anche alla fine di questo orribile blocco imposto da Israele a qualsiasi fornitura civile e umanitaria verso la popolazione di Gaza. Hamas non potrà mai accettare tregua e rilascio senza che si sblocchi la situazione degli aiuti. In entrambe le trattative, l’amministrazione Trump ha bisogno di tempo per definire il futuro delle due regioni.
Per come si stanno muovendo gli USA, possiamo dire che non vogliono che si torni a combattere a Gaza?
Sì, anche se Netanyahu e il nuovo capo di Stato maggiore della difesa, Eyal Zamir, vorrebbero tornare alla guerra. Tutto questo deve fare i conti, oggi ancora più di ieri, con un’eventuale rivolta dei Paesi arabi nei confronti di Trump. In questo momento ci sono troppe connessioni, anche economiche, tra USA e mondo arabo che impediscono che si possa riprendere a cuor leggero a combattere, lasciando che perduri il blocco degli aiuti umanitari.
(Paolo Rossetti)
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