L'analisi dell'Economist sugli effetti reali degli investimenti in Difesa promossi dalla NATO: pochi posti di lavoro, scarse competenze e mercati secondari
In questi giorni di proclami e accese discussioni sul tema degli investimenti nella Difesa promossi a gran voce dal collettivo della NATO che si è riunito la scorsa settimana, l’Economist ha pubblicato un’interessante analisi su quelli che potrebbero essere gli effetti di una tale decisione per l’economia europea, in affanno ormai da diversi anni – soprattutto dalla crisi in Ucraina, ma anche dalla pandemia Covid – specialmente nel comparto manifatturiero che sarebbe fondamentale per la Difesa.
Facendo prima di tutto un passo indietro, è utile ricordare che durante l’ultima assemblea generale della NATO che si è tenuta all’Aja, a dispetto di tutte quelle che erano state le opposizioni da parte di questo o quell’altro paese, alla fine tutti i paesi (Spagna esclusa) hanno accettato di portare i loro investimenti nel settore della Difesa ad almeno il 5% del PIL: l’obbiettivo chiaro – o meglio, dichiarato – è quello di aumentare le capacità difensive europee in vista di un futuro attacco da parte della Russia, del quale (è bene dirlo) non ci sono prove concrete.
Di fatto il vertice della NATO e l’obbiettivo del 5% è stato presentato dai grandi della terra (inclusi quelli che si erano detti non intenzionati a togliere soldi a settori ben più importanti come l’istruzione o la sanità) come un vero e proprio successo industriale; mentre resta fermo il fatto che di quel 5% solo un 3,5 andrà effettivamente in investimenti produttivi, mentre il restante 1,5% includerà diverse spese parzialmente collegate alla Difesa, come il controllo delle frontiere o lo sviluppo delle infrastrutture critiche.
Quali sarebbero i reali effetti degli investimenti nella Difesa: l’analisi dell’Economist tra PIL, posti di lavoro e competenze
Tornando a noi, l’Economist si è prefissato l’obbiettivo di capire concretamente quali effetti potrebbero avere per il comparto manifatturiero europeo gli investimenti promossi e promessi per la Difesa: il dato di partenza sono quei 2,5 trilioni di euro di valore aggiunto generato dall’intero comparto manifatturiero dei 27 nel 2024, calati di oltre 20 punti percentuali rispetto al 1995 e pari a circa il 16% del PIL complessivo del blocco europeo.

Secondo delle stime fatte dalla società di consulenza EY – citata dall’Economist – nei prossimi anni i 27 dovranno spendere circa 137 miliardi di euro in più per l’obbiettivo del 5% del PIL, con un aumento rispetto ai valori attuali di circa 65 miliardi; mentre di questi ultimi solamente 37,5 miliardi finirebbero effettivamente a favore della Difesa vera e propria con una creazione di circa 150mila posti di lavoro (500mila se si considera l’intera, complessa, catena di approvvigionamento militare).
L’ovvia reazione dei paesi alla necessità di spendere maggiori risorse sarà quella di puntare sui mercati più economici e nel caso specifico della Difesa è probabile che le attenzioni finiranno sull’Ucraina, altamente specializzata (anche a causa della guerra) nelle produzioni militari a basso costo: la Germania e la Danimarca, non a caso, hanno già annunciato progetti in tal senso; mentre se tutti i 27 seguissero l’esempio, ne conseguirebbe che il numero di posti di lavoro creati e PIL generato sarebbero nettamente inferiori.
Non solo, perché al contempo resta un chiaro ed evidente problema da risolvere affinché gli investimenti nella Difesa non finiscano per essere solo soldi allocati inutilmente: per produrre armi e armamenti di ultimissima generazione (peraltro in un comparto che si sviluppa e aggiorna molto rapidamente) servono le competenze dei lavoratori in un mercato del lavoro – si veda l’esempio del comparto manifatturiero – fortemente in affanno che fatica a trattenere i giovani (ma non solo) altamente formati e i cui dati di occupazione sono in calo ormai da parecchi anni; addirittura prima delle recenti crisi tra Ucraina e Covid.
