Il Piano nazionale per i diritti delle persone con disabilità avrebbe bisogno di essere potenziato per avere maggior efficacia
Chi si occupa concretamente di disabilità, pur guardando con benevolenza al Piano nazionale per i diritti delle persone con disabilità, nota che esso – presentato come frutto di un lavoro congiunto interministeriale con l’obiettivo del passaggio da un modello assistenziale per le persone non autosufficienti a una programmazione e applicazione dei diritti umani e sul progetto di vita – rivela, a una lettura non superficiale, ma attenta appunto a formulare critica costruttiva , una preoccupante tendenza a rimandare l’applicazione concreta delle norme previste con tempi non compatibili con i problemi decennali che non abbiamo risolto.
Purtroppo il Piano sembra dilatarsi temporalmente con una serie infinita di tavoli interministeriali, predisposizione di linee guida e definizione di indicazioni nazionali (forse stanno per indicatori?) legati alla realizzazione di servizi integrati socio-sanitari.
La questione comunque più preoccupante è legata alla formula ormai adottata ricorrentemente che “la spesa finanziaria deve rimanere invariata” e ci chiediamo come si potrà procedere. Anche perché il Piano non si misura concretamente con la questione dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) che fanno i conti su un sistema regionale sanitario e sociale diverso dove, per esempio concreto, il progetto di vita legato al budget a disposizione crea già ora, a bocce ferme, delle diversità di servizi che discriminano fortemente da persona a persona.
Altra questione di prospettiva posta in maniera errata: si propone l’insegnamento sulla disabilità nei corsi di laurea e di specializzazione di medicina, ma l spetta al ministero dell’Università e ricerca modificare i corsi e nell’autonomia universitaria poi realizzarli o meno quando comunque medicalizzare la disabilità non è proprio considerarla nella nuova dimensione biopsicosociale suggerita nelle recenti strategie di sostegno.
Contemporaneamente si muovono iniziative collaterali come quella di Inps che lancia un bando per l’erogazione di un contributo economico finalizzato al sostegno delle persone con disabilità grave o affette da patologie gravi, nonché dei loro familiari conviventi. Una misura assistenziale una tantum con un contributo che può andare da 500 a 3.000 euro in base all’Isee del beneficiario fino a 12.000 euro, dedicato a dipendenti o pensionati della gestione Fondo IPOST.
Sempre in corso d’opera si scatenano gli enti di formazione per organizzare ciò che prevede il decreto interministeriale del 19/9/25, firmato dal ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, dai ministeri Istruzione e Università, che adotta le Linee guida nazionali concernenti la definizione degli standard formativi degli assistenti familiari impegnati nelle attività di supporto e assistenza alle persone anziane non autosufficienti.
Queste prevedono che sia necessario seguire un corso minimo di 70 ore tra parte tecnica e pratica con addirittura una parte di formazione possibile a distanza (59%) e sono riconosciuti crediti formativi a coloro che hanno esperienza pregresse come la certificazione UNI 11766:2019 (volontario, badante, babysitter) che potranno vedersi le competenze riconosciute.
Insomma il business della non autosufficienza si è sviluppato e rimane al palo ancora una volta quel caregiver familiare al quale non viene riconosciuto a tutt’oggi quel lavoro di sostegno al proprio caro che sulle sue spalle grava per tutta la mancanza di welfare di servizi che un familiare disabile comporta.
Le considerazioni più sagge che si possono fare all’insegna di queste prospettive è che dovremo con saggezza rivolgere la nostra attenzione alla forza lavoro straniera soprattutto da parte di popolazioni che hanno un gran rispetto per gli anziani, relativamente alle professioni legate all’assistenza delle terza e quarta età e dunque creare un ambiente inclusivo per le donne e gli uomini che vengono nel nostro Paese e le loro famiglie sarà un imperativo per la politica.
E non solo, ma anche per noi, poiché a proposito degli Stati generali della natalità conclusi proprio recentemente, per favorire l’occupazione femminile e anche dei giovani politiche finalizzate a rendere l’assistenza all’infanzia e alla terza età disponibile a prezzi accessibili e di qualità unita a congedi paritari tra madri e padri e politiche aziendali a favore della flessibilità lavorativa creerebbe un bene comune straordinario.
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