È rimasto sette mesi in carcere per uno scambio di persona. Eppure bastava una semplice perizia fonica per scagionare Domenico Forgione e comprendere che non era lui il ‘ndranghetista intercettato. Non doveva essere arrestato, né essere esposto alla pubblica gogna, non doveva restare in una cella dalle condizioni disumane. L’incubo per Forgione, storico e giornalista, è finito lo scorso 16 settembre. Era agli arresti dal 25 febbraio 2020, giorno in cui esplode lo scandalo a Sant’Eufemia d’Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria. Il Consiglio comunale viene sciolto per infiltrazioni mafiose: in manette il sindaco Domenico Creazzo, accusato di voto di scambio, il vicesindaco Cosimo Idà che secondo la procura ha promosso e organizzato una fazione mafiosa, il presidente del consiglio comunale angelo Alati e appunto Forgione, consigliere di minoranza accusato di associazione a delinquere. Quando alle 3:30 del 25 febbraio si presentano a casa sua i poliziotti viene portato via anche suo padre. In Questura ritrova mezzo Consiglio comunale. Viene poi trasferito al carcere di Palmi, in cella ci entra alle 18:30. Ed lì che legge le 17 pagine dove trova l’intercettazione a lui attribuita.
«La persona intercettata non ero io. Quel Dominique non ero io», dice a Il Dubbio. Il problema è che lui, nato in Australia, è conosciuto con quel nomignolo. Per lui comunque non c’era una illogicità a smentire il suo coinvolgimento: da consigliere di opposizione si è sempre esposto pubblicamente contro. Con l’avvocato decise di chiedere subito una perizia fonica. Sarebbe bastato confrontare la voce di quell’intercettazione con la sua per capire che c’era stato uno scambio di persona.
“FINITO PER ERRORE NEL CIMITERO DEI VIVI”
Ma a causa del Covid non è stata concessa: il perito non poteva entrare in carcere. Allora la difesa ne ha prodotta una sua, comparando l’interrogatorio di garanzia con l’audio dell’intercettazione. Così è stato evidente che non solo la voce non era la sua, ma il dialetto parlato non è neppure del suo paese. Quindi, Domenico Forgione ha scritto al pm reclamando il suo diritto alla difesa. Inoltre, adduce altri elementi: ad esempio, il giorno dell’intercettazione era a giocare una partita di calcetto, quindi non ci sarebbe stato il tempo per arrivare al ristorante dove è avvenuta l’intercettazione. Un mese dopo la sua lettera, però, è stato trasferito nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. «L’acqua delle docce era marrone. Ho avuto prurito alla pelle per due mesi dopo la scarcerazione. E nei tre mesi che sono stato lì ci sono stati un suicidio e due tentati suicidi. La spazzatura arrivava alle finestre delle celle e vivevamo in mezzo ad un puzzo terribile», racconta a il Dubbio. La perizia è arrivata a settembre. Così sette mesi dopo la sua posizione è stata archiviata ed è potuto uscire dal carcere. Oggi denuncia questo caso di malagiustizia. «Sono soddisfatto? No. Arrabbiato? Neanche. Sono deluso. Nessuno dovrebbe essere privato della libertà ed essere scaraventato nel “cimitero dei vivi”, prima dell’accertamento della sua colpevolezza». Inoltre, afferma di non avere fiducia nella giustizia italiana, ma di credere nella verità: «Ora inizia il secondo tempo, che intendo come impegno per una battaglia di civiltà minoritaria e impopolare: contro la gogna del giustizialismo mediatico, contro l’aberrazione della carcerazione preventiva, contro la condizione disumana di molte carceri italiane».