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Home » Chiesa » Convergenze » DON GIUSSANI/ “Il dono di riconoscere Cristo come un Presenza che accade e risponde all’io”

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DON GIUSSANI/ “Il dono di riconoscere Cristo come un Presenza che accade e risponde all’io”

Per don Giussani il cristianesimo è l’avvenimento che spiega l’io a se stesso. Solo Cristo permette di sapersi uomini

Costantino Esposito
Pubblicato 27 Aprile 2025
Don Luigi Giussani

Luigi Giussani (1922-2005) (foto dal web)

Continua la pubblicazione di testimonianze su don Luigi Giussani, nel ventennale della sua salita al Cielo (2005) (ndr)

Per ricordare il ventesimo anniversario della morte di don Luigi Giussani penso che la modalità più utile, e soprattutto la più adeguata, sia quella di mettere in luce il contributo del suo pensiero alla comprensione della condizione umana nel drammatico e insieme affascinante percorso della cultura, della società e della Chiesa a partire dal secondo dopoguerra sino ai giorni nostri.


GIUBILEO/ "Da medico o da politico, mille modi di sperimentare una Presenza amorevole"


E quando parlo del suo pensiero non intendo solo la sua prospettiva teorica o la sua impostazione dottrinale, ma soprattutto il modo in cui per lui l’incontro con Cristo è diventato una vera e propria esperienza e al tempo stesso ha chiarificato che cosa possa significare per gli esseri umani fare esperienza dell’essere, cioè avere coscienza del reale e autocoscienza di sé.


PAPA/ La "ricetta" di Leone XIV per abitare (da cristiani) in questo mondo


Un’analogia può forse aiutare a comprendere la posta in gioco di questa scoperta. Pensiamo a quando l’avvenimento cristiano ha fatto irruzione nell’orizzonte del paganesimo tardo-antico, per tanti versi simile al nostro tempo, sebbene quest’ultimo abbia la caratteristica di essere un paganesimo rinato dopo, e spesso all’interno, di una cultura di matrice cristiana. I pagani contemporanei sono post-cristiani, forse non più in dialettica o per antagonismo con il cristianesimo, ma per aver considerato la tradizione cristiana – o meglio, la “cristianità” – come il canone morale di un passato ormai non più significativo per la vita presente.


PAPA FRANCESCO/ Quella conversione del cuore che sceglie il tempo di Dio invece del potere


In entrambi i periodi storici, tuttavia, il cristianesimo rivela un vantaggio inestimabile: quello di potersi affidare solo alla novità umanamente sorprendente del suo accadere storico, e in virtù di esso toccare e conquistare la vita delle persone. E difatti può succedere che proprio in un contesto pagano o post-cristiano (o nichilista) divenga più facile rendersene conto.

C’è un passo di don Giussani che rende questo incontro in maniera davvero icastica. Vale la pena rileggerlo per intero: “Il cristianesimo è un avvenimento in cui l’io si imbatte e che scopre essergli ‘consanguineo’ (2 Pt 1,4), è un fatto che rivela l’io a sé stesso. ‘Quando ho incontrato Cristo mi sono scoperto uomo’ diceva il retore romano Mario Vittorino. Che l’uomo sia ‘salvato’ vuol dire che egli riconosce chi è, che riconosce il suo destino e sa come condurre i propri passi verso di esso. (…) È un avvenimento – l’irruzione di una novità – ciò che dà inizio al processo per cui l’io incomincia a prendere coscienza di sé, a prendere nota del destino verso cui sta andando, del cammino che sta facendo, dei diritti che ha, dei doveri che deve rispettare, della sua fisionomia intera” (L. Giussani, S. Alberto, J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo, Rizzoli, 1998, p. 13).

Colpisce questa consanguineità di io e Dio: sono appunto della stessa “natura” (il greco dice koinonoi, il latino consortes); hanno lo stesso “sangue”, la stessa “carne”. La carne dell’io non è solo il suo corpo biologico, ma la sua esperienza irriducibile, il suo rapporto con l’infinito. Nello sguardo di Cristo si apre la grande possibilità di prendere coscienza di “che cosa” è l’io di ciascun essere umano (“ed io che sono?”, si chiederà Leopardi nel Canto notturno), nel momento stesso in cui la persona avverte e comprende di esserci perché strappata dal nulla, e non solo all’inizio, ma continuamente, in ogni istante presente. Il nulla cui gli uomini sarebbero inevitabilmente destinati, o perché il loro potere prima o poi tramonta sulla scena “politica” del mondo o semplicemente perché la natura fa il suo corso portandoli verso la fine.

Come il cristianesimo, anche l’io umano ha la natura propria di qualcosa che “accade”, e quando il primo raggiunge il secondo ne rivela la stoffa irriducibile: il rapporto con chi gli ha dato l’essere, cioè il suo esistere non solo come l’esito o il “prodotto” delle leggi biologiche della natura, ma come il “figlio” di un padre che lo ha generato a sé stesso e lo ha reso capace di essere “sé stesso”, irripetibile. Da quel momento il soggetto umano è più, molto più che “soggettivo”, perché scopre una “oggettività” ontologica, o per usare i più appropriati termini storici, scopre, come una traccia tenace in sé, la compagnia di un altro da sé.

Come una volta ha scritto Alexandr Solzenicyn: “A volte sento con chiarezza che in me non tutto sono io. C’è qualcosa di indistruttibile, di altissimo! Un frammento dello Spirito universale. Lei non lo sente?” (Reparto C, Einaudi, 1969, p. 526). Ma era la stessa esperienza di Agostino, il quale trovava il suo io abitato da una presenza di cui egli stesso non riusciva a dar conto o a ridurre alla sua soggettività: “In realtà io stesso non riesco a comprendere tutto ciò che sono. Dunque il mio animo sarebbe troppo angusto per comprendere sé stesso?” (Confessioni, 10.8,15). Ed era la stessa esperienza “moderna” dell’“io penso” di Cartesio, che trova in sé, attraverso l’idea di infinito, qualcosa che lo precede, e senza cui esso non potrebbe né dubitare né desiderare.

Giussani riprende e rilancia questa scoperta dell’io che è abitato da un altro da sé. Un io che è più me di me stesso (ancora Agostino: “tu eri dentro di me e io fuori”, Confessioni 10.27,38), e che giunge – nonostante tutte le sue continue riduzioni a soggetto-misura di sé e del mondo – sino ad esplodere nuovamente nell’epoca del nichilismo contemporaneo. Lì dove il bisogno di un senso ultimo per l’esistenza non riesce più ad essere forzatamente incasellato o tanto meno risolto nelle presunzioni e nelle prestazioni di una soggettività che soffoca o trascura il suo desiderio di infinito.

Ma se è l’incontro con il cristianesimo che permette di “liberare” l’io, se è quell’incontro “il catalizzatore adeguato della conoscenza dell’io, ciò che rende possibile una chiara e stabile percezione dell’io, che permette all’io di diventare operativo come io” (L. Giussani, In cammino, BUR, 2014, p. 106), allora questa esperienza costituisce come la via privilegiata per riconoscere il cristianesimo come una “presenza” che accade:  “Cristo infatti si pone come risposta a ciò che sono ‘io’ e solo una presa di coscienza attenta e anche tenera e appassionata di me stesso mi può spalancare e disporre a riconoscere, ad ammirare, a ringraziare, a vivere Cristo. Senza questa coscienza [di ciò che sono] anche quello di Gesù Cristo diviene un puro nome” (L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2001, p. 3).

Riscoprire il cristianesimo come un avvenimento dell’io – di ciò che, in me, è infinito e infinitamente più grande di me – è la chance che ci offre Giussani perché esso venga percepito per quella che è da sempre stata la sua pretesa: rispondere, abbracciandola, alla domanda di senso che abita il cuore dell’uomo. Ma è una risposta che non mette mai a tacere questa domanda, anzi l’intensifica, starei per dire l’esalta. Perché in fondo tale domanda è il dono del Mistero in noi, ed è il segno della partnership che ci rende noi stessi.

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