A Gussago, nel bresciano, una giovane donna ha ucciso la convivente a colpi d’arma da fuoco dopo un litigio tra le mura domestiche. Ai carabinieri, chiamati a poche ore dall’omicidio, ha rivelato che il movente è di tipo passionale. Si tratta dell’ultimo di molti casi di cronaca che hanno per protagoniste donne, vittime di una violenza domestica che spesso ha esiti tragici. Non sono solo telegiornali e quotidiani a confermarlo: una ricerca Istat, relativa all’anno 2012, ha rivelato che negli ultimi 20 anni i casi di omicidio in Italia sono calati di un terzo, ma sono aumentati notevolmente quelli contro le donne. Solo nel 2010 ne sono state uccise 156, nel 2009 erano state 172, mentre nel 2003 (il picco del decennio scorso) furono 192 le vittime. Il 70% dei reati sono commessi da partner o parenti, persone che le vittime di violenza consideravano “i loro cari”, come rivela Telefono Rosa. L’omicidio avvenuto nel bresciano ha per protagonista una coppia omosessuale, ma poco cambia. Le dinamiche familiari sempre più fragili nella società di oggi sono forse all’origine di un equilibrio così precario? Lo abbiamo chiesto allo psichiatra e criminologo Alessandro Meluzzi.
Cosa avviene nella testa di chi commette un gesto così feroce?
Intanto è necessaria una prima considerazione sul caso specifico. L’omicidio non è una cosa che riguarda solo i maschi, anche le donne possono assumere comportamenti che sono stati storicamente maschili ma che si estendono anche a situazioni in cui i rapporti di genere sono radicalmente diversi. Detto ciò, quasi tutti i femminicidi hanno la stessa caratteristica.
Quale?
La sensazione di poter perdere quello che è considerato un oggetto di possesso, quindi la mancanza di indipendenza e autosufficienza, una reazione di genere depressivo e adolescenziale di fronte alla perdita dell’oggetto del desiderio. Il femminicida, o la femminicida, come in questo caso, è come un’adolescente o un bambino abbandonato da una madre cattiva sulla quale deve esercitare una reazione distruttiva per sfogare la propria incapacità di rielaborare il distacco. Il femminicida può aver avuto un rapporto di attaccamento molto disturbato nell’infanzia è non è capace di creare un rapporto adulto sano, facendo volgere il distacco in una distruzione dell’oggetto del desiderio.
Spesso le persone che commettono questo tipo di reati sono all’apparenza persone irreprensibili. Chiunque potrebbe quindi commettere un gesto del genere o ci sono fattori predisponenti?
E’ molto difficile riuscire a fare un quadro diagnostico preventivo di coloro che potrebbero essere colpiti da questa situazione. Diciamo che spesso si tratta di persone che non hanno precedenti penali o psichiatrici, ma questo non vuol dire che non ci fosse una sofferenza inconscia o preconscia sepolta nella personalità.
C’è una differenza rispetto al passato nella quantità o nel tipo di situazioni in cui avvengono questi omicidi?
Non che la famiglia tradizionale fosse esente da violenza, ma certamente la famiglia di un tempo, che era un’entità di sopravvivenza, oltre che di accoglienza ed educazione alla vita, nell’ultima fase della storia umana, caratterizzata da precarietà, fragilità dei singoli, promiscuità, confusione nelle relazioni, caos dei sistemi di riferimento, sta osservando l’aumento di questi mali come di tanti altri. Una famiglia o coppia in cui Dio non è al primo posto non avrà mai niente a posto, e siccome questa dimensione si è attenuata nel corso della storia, questo brodo primordiale di caos nel quale ci troviamo è un segno negativo di sofferenza dei tempi presenti.
Questo omicidio, avvenuto all’interno di una relazione omosessuale, è piuttosto inusuale. Come si spiega il fatto che per la maggior parte gli omicidi con questo tipo movente (gelosia, abbandono, tradimenti…) vengano commessi da uomini?
Sono commessi intanto all’interno della coppia, che spesso è una dimensione di sofferenza, ed è una dimensione di invenzione recente. Prima della coppia, che fosse omosessuale o eterosessuale, c’era la famiglia, che dava altre distanze, altri legami, altre sicurezze, stabilità. Molto spesso la creazione di una famiglia andava aldilà della ricerca della felicità dei singoli. Oggi invece la coppia si basa sull’idea un po’ maniacale che quella persona debba essere la fonte di ogni mia felicità, che possa essere inclusa nel mio progetto, e che i meccanismi che hanno messo insieme due persone debbano essere gli stessi che tengono in piedi il rapporto, mentre se non c’è una crescita, una coevoluzione una dimensione di desiderio, tenerezza, intimità, ma anche di un progetto di vita come era quello della famiglia, la coppia “scoppia”.
In quali casi si può parlare di “amore malato”?
L’amore è malato quando rimane prigioniero di se stesso ed è incontro di due egoismi. Quando l’amore non è dono, accoglienza nella vita, non è progetto esistenziale totale e non va nella direzione dell’Altro con la A maiuscola, che per i credenti è Dio, o che per i non credenti è un amore universale, il rischio è che l’incontro di due egoismi si traduca in aggressività, in violenza, in distruttività. Il rapporto con l’altro si rivela non essere un cartone animato dei nostri desideri, ma un “tu” irriducibile alla nostra volontà, un “tu” misterioso, un “tu” incomprensibile. Allora di fronte a questo “tu” incomprensibile il rischio di cadere nella distruzione è più elevato rispetto piuttosto a chi ha improntato la propria vita alla dimensione del dono, della famiglia.
In base alla sua esperienza, esistono delle differenze quando l’omicidio per motivi passionali è commesso all’interno di una coppia eterosessuale o omosessuale?
La mia sensazione, alla luce delle statistiche, specialmente in riferimento alle coppie maschili, è che la tendenza alla brevità dei rapporti o della promiscuità, che sicuramente non è appannaggio unicamente del mondo omosessuale, sia più frequente nelle coppie gay. Lo dimostra il fatto che paesi come la Germania o la Spagna, dove vengono celebrati i matrimoni omosessuali, registrino anche un boom di richieste di divorzi, e questo dimostra che la stabilità della relazione è qualcosa che quando c’era, e quando c’è, era fortemente ancorata alla dimensione della coppia proiettata all’accoglienza della vita, una proiezione quindi di sé aldifuori di sé. Questo in una coppia omosessuale è per sua natura più difficile, coi problemi che ne derivano, ma di statistiche che consentano un confronto significativo sul fenomeno di questi reati al momento non ce ne sono.
“Quello omosessuale è l’amore più puro, al contrario di quello eterosessuale, strumentale alla riproduzione”. E’ l’opinione dell’oncologo ed ex ministro della Sanità, Umberto Veronesi. Lei come psichiatra cosa replica a questa dichiarazione?
Credo che il dott. Veronesi dia il meglio di sè quando si occupa di tumori e di chemioterapia, ma quando si occupa di questioni di bioetica e filosofia il suo parere è attendibile quanto quello di chiunque altro. Non posso che definire la sua dichiarazione raccapricciante, perchè semmai ciò che qualifica l’amore è proprio il suo proiettare la solitudine delle persone in un tempo futuro, della creazione del mondo, della sua rigenerazione, una dimensione in cui gli uomini non sono prigionieri del tempo presente ma proiettano la loro dimensione in quella realtà che faceva dire a Gibran che “i figli sono le nostre frecce scagliate verso l’infinito”, che non appartengono più a noi, ma sono il nostro futuro e da cui deriva il senso della nostra vita. Un amore che diventa l’incontro di un egoismo con se stesso, anziché la dimensione di un’accettazione di questo dono che la natura è, e che ci ha fatti a immagine di Dio, è un’idea che rende ragione del perchè di tanto male nel mondo. E che una persona saggia e sapiente come Veronesi faccia affermazioni di questo tipo, la dice lunga sulla malattia di cui il mondo soffre.
(Nicoletta Fusè)