Il ciclico ripresentarsi del dibattito sull’opportunità di riconoscere uno stipendio alle casalinghe – sollevato stavolta dal sito americano Salary.com – segnala un punto di attenzione reale, sia pure in termini di riferimento inappropriati. Il problema dell’ingente lavoro svolto tra le mura domestiche dalle donne, quantificabile secondo il sito in circa 7.000 dollari al mese, non è infatti quello del difficile reperimento di risorse (pubbliche, presumibilmente) per coprire un simile fabbisogno. E d’altro canto, il tema non è neppure quello di conciliare la retribuzione di attività così fondamentali per la vita quotidiana con l’incentivo al lavoro femminile extradomestico, che a questo punto verrebbe del tutto abbandonato: Salary.com si è infatti preoccupato di valorizzare anche le attività casalinghe di donne già impegnate in attività professionali fuori casa.
La questione è piuttosto un’altra, più fondamentale. Impegni come quelli elencati da Salary.com – fare le pulizie, cucinare i pasti, fare la spesa, accompagnare i figli a scuola, per fermarsi solo ai più routinari – sono tutt’altro che assimilabili a una professione, per quanto manageriale. Sono piuttosto incombenze che vanno inquadrate in una più generale preoccupazione per il benessere delle persone care, per il buon andamento della loro vita, per la predisposizione e il mantenimento di un ambiente vitale quanto più possibile salubre e piacevole.
Che questa preoccupazione, antica come la nostra specie, abbia da sempre contraddistinto il ruolo femminile dovrebbe essere motivo di orgoglio e di consapevolezza del proprio potenziale per le donne. È possibile valorizzare tutto questo in termini monetari? Quanto è compatibile il cosiddetto lavoro di cura quotidiana con la quantificazione economica? Com’è possibile tradurre quello che le femministe storiche avevano chiamato “manutenzione dell’esistenza” in una retribuzione analoga a quella di qualsiasi altra professione?
Chi sostiene che argomenti del genere tentino in fin dei conti di ridimensionare il contributo femminile non ne coglie al contrario la portata dirompente per la mentalità dominante, ben evidente qualche decennio fa. Ricondurre tutte le attività casalinghe a una voce di budget, più o meno corposa, a carico dello Stato, di un’assicurazione o di chicchessia, significa misconoscere la loro natura di indispensabile sostrato della vita, per allinearle a una logica economicistica, che “vede” i fenomeni solo se leggibili in termini monetari.
Rientrano in questa stessa logica i tentativi di definire un mercato per i servizi all’infanzia e alla terza età, delegando esigenze come quella dell’allevamento dei figli o dell’assistenza agli anziani o ai malati a terzi, ovviamente retribuiti. Così facendo, tuttavia, si snatura l’essenza stessa di queste esigenze, che fanno parte integrante della nostra umanità, e non sono semplicemente relegabili ai suoi confini come eccezioni da gestire, più o meno managerialmente.
Il problema, dunque, non è quantitativo, ma qualitativo: non si tratta di definire quanto pagare le casalinghe, ma piuttosto rimettere in questione la convinzione diffusa nella nostra società che il valore debba essere sempre e comunque identificato con il prezzo definito dal mercato. Per dirla con le parole di Anne-Marie Slaughter, in un recente articolo sull’Atlantic, si tratta di affiancare il paradigma della competizione e il paradigma della cura, dando uguale importanza al contributo di chi realizza profitti e a quello di chi si prende cura degli altri. Un contributo che non può, non deve essere necessariamente monetizzabile.