DOPO ISCHIA/ “Abusivismo e consumo di suolo, ecco come affrontare le piaghe italiane”

- int. Franco Guzzetti

Dopo Ischia, ecco una proposta contro l'abusivismo e il consumo di suolo. Serve anche un cambio di paradigma nel rapporto pubblico-privato

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Abusivismo e consumo di suolo. Sono le due ferite che spiegano tanto degrado nell’ambiente urbano (e non) del sistema-Italia. Se il tandem abusivismo e condoni spiega episodi come quelli di Sarno o Casamicciola a Ischia, il territorio divorato da troppe costruzioni è anche una conseguenza degli oneri di urbanizzazione, che garantiscono ai comuni una entrata pressoché sicura.

È con questo obiettivo che si è spesso svenduto il territorio, spiega Franco Guzzetti, docente nel dipartimento di architettura, ingegneria delle costruzioni e ambiente costruito del Politecnico di Milano in questa intervista, che riprende e sviluppa i temi affrontati ieri con Massimo Rossati.

Partiamo dagli abusi. A Casamicciola – ma il problema riguarda tante altre località, forse più al Sud che al Nord – sono un fenomeno massiccio. 

Davanti a un abuso edilizio, a una costruzione abusiva, l’amministrazione comunale non può di fatto procedere se non c’è un altro privato che denuncia il privato che ha commesso l’abuso. Purtroppo con queste regole è difficile che chi conosce in modo diretto il territorio, cioè l’ente locale, riesca a controllare l’abusivismo. Il rischio è che non succeda mai nulla in questo senso, soprattutto in certi territori molto omertosi, dove in tanti commettono irregolarità.

Ma non è il comune a rilasciare il certificato di abitabilità (più correttamente, la segnalazione certificata di agibilità)?

Sì, è compito del comune, ma se il privato che costruisce in modo abusivo non fa richiesta di abitabilità della sua casa, l’amministrazione non può nemmeno mandare la polizia locale a verificare la reale residenza. Fra l’altro, di conseguenza, l’abusivo non paga neppure Imu, Tari eccetera.

E gli allacciamenti alle utenze?

Purtroppo di fatto di riescono ad avere anche per edifici non abitabili, compresi quelli abusivi. Infatti a Milano e in altre città si sta facendo una battaglia contro l’abusivismo che verifica i consumi delle abitazioni e li correla con contratti di affitto e altri dati personali e di proprietà (catastali).

Con quali risultati?

È un lavoro impegnativo che risolve solo marginalmente il problema, aiuta a regolarizzare la classazione catastale e altro, ma raramente risolve in modo drastico l’abuso nei confronti del rischio idrogeologico. Ovviamente poi si deve lavorare con dati coperti da privacy e bisogna stare molto attenti a gestirli; chi vuole frodare si appoggia legalmente per non essere identificato e l’accusatore rischia di passare dalla parte del torto.

Ipotizziamo che a questo punto subentri un condono.

Come detto, se gli amministratori pubblici attivano sanatorie non si va proprio da nessuna parte e la tutela dell’ambiente, il rispetto dei rischi idrogeologici saltano completamente.

Nella nostra precedente intervista lei aveva parlato del ruolo innovativo che potrebbero avere in Italia le assicurazioni. 

In Italia il mondo assicurativo soffre dello storico intervento dello Stato, che si pretende esclusivo, in caso di calamità naturale. All’estero non è sempre così, salvo gli eventi realmente straordinari, come ad esempio l’uragano Katrina. Ci sarebbe da fare la storia dell’utilizzo della cosiddetta calamità naturale in Italia, in parallelo al giudizio di reale eccezionalità dell’evento, ricordando sempre che intervenire a posteriori costa sempre molto di più degli interventi di prevenzione. Senza considerare l’aspetto più importante che sono le vite umane. Il coinvolgimento sussidiario del privato attiva una responsabilità che ha risvolti educativi.

Che ruolo avrebbe il privato?

In un sistema misto come già vige in altri Paesi europei i privati devono assicurare la loro casa per i danni meteo e da sisma ma le assicurazioni non assicurano se l’edificio è costruito in zona a rischio. Da noi sono percentualmente poche le residenze assicurate su terremoti e rischio idrogeologico, proprio perché, nel caso, sappiamo che interviene lo Stato.

Ci sta dicendo che l’intervento dello Stato non è più la soluzione?

È crudo da dire, ma se lo Stato non intervenisse a ricostruire le case danneggiate, distrutte o rese inagibili da fenomeni assolutamente prevedibili, nel caso si accertasse che questi edifici sono stati realizzati in aree ad alto rischio, probabilmente il discorso assicurativo prenderebbe piede anche in Italia e in ogni caso si potrebbe contare su un maggior rispetto di vincoli e aree di inedificabilità. Si tratta però di cambiare drasticamente mentalità, un po’ come stiamo facendo per la vicenda energetica.

Fenomeni assolutamente prevedibili, ha detto. Sicuro?

Prevedibili nel senso che si sa benissimo che possono capitare, anzi che naturalmente prima o poi capiteranno.

Le faccio la stessa domanda che ho fatto al suo collega Rossati. Cosa possiamo fare davanti a quel 94% di comuni italiani che hanno parti del proprio territorio in aree a rischio idrogeologico?

Il dato quantitativo è serio è assolutamente attendibile, deriva da un rigoroso lavoro condotto da Ispra di recente, omogeneizzando i dati che prima erano a livello regionale e attivando azioni di comunicazione serie e sempre più precise.

Quindi?

Il fatto che in quasi tutti i comuni ci siano aree a rischio non vuole automaticamente dire che non si può più costruire. Dipende dal rischio e da cosa si costruisce. Le cascine e gli edifici per le attività agricole possono stare anche in aree di esondazione, non sarebbero da costruire quartieri residenziali. Certamente le aree di frana sono da vietare perché le forze che si scatenano, come ad Ischia, sono mostruose e assolutamente incompatibili con le costruzioni. Ci sono però dei rischi che si possono correre, nonostante tutto.

Quali?

Ad esempio, alcune alluvioni in territori di pianura possono essere gestite. È il caso del Veneto pianeggiante, dove i corsi d’acqua scorrono in un letto che è più alto del terreno circostante per effetto delle opere di bonifica che hanno reso coltivabile il terreno stesso. Guardi questa foto, dove un’opera di difesa viene alzata a difesa dell’acqua quando il sistema di allerta meteo avvisa che ci sarà una piena e quindi una esondazione.

Ovviamente deve funzionare il sistema di allerta. 

Certo. Addirittura alcune compagnie assicurative possono finanziare misure di difesa di questo tipo con la pubblicità sull’opera stessa, perché mirano a non pagare danni. Ovviamente non pagano i danni se la difesa non è installata per tempo una volta partita l’allerta.

E le residenze assolutamente regolari dal punto di vista del titolo edilizio, costruite prima della classificazione Ispra che lei ha citato?

Esistono tante abitazioni regolarmente autorizzate che non potrebbero più essere costruite a seguito dell’aumentata conoscenza del rischio idrogeologico. Per questo ci sono territori che vanno difesi con opere come quella illustrata o con altri sistemi da realizzare; difficile è spostare costruzioni intere, per di più abitate, regolarmente concesse. L’esempio lampante è Venezia: è in area ad alto rischio idrogeologico, lo sanno tutti, ma è assurdo pensare di spostarla e per questo è stato giusto costruire il Mose.

Immagino che queste considerazioni sulla salvaguardia non valgano per le costruzioni abusive.

Non possono valere dove l’abuso è stato condonato, perché, come già detto domenica, il condono è puramente amministrativo-fiscale, non risolve l’eventuale inadeguatezza del luogo dove la costruzione abusiva e condonata è stata realizzata.

E gli abusi minori?

Anche i piccoli abusi condonati corrispondono spesso dal punto di vista ingegneristico a lavori non fatti a regola d’arte, che indeboliscono dal punto di vista statico la costruzione, aumentando la sua fragilità sismica.

Veniamo all’utilizzo del suolo. Perché ne abbiamo “consumato” così tanto?

Premetto che “consumo di suolo” è per me è un termine fondamentale che andrebbe rispettato. Qui l’aspetto programmatorio è in capo alle amministrazioni locali. Per decenni abbiamo adottato piani regolatori – o piani di governo del territorio – dove l’elemento fondamentale era permettere di costruire su suolo non ancora edificato perché in cambio il costruttore deve pagare i cosiddetti oneri di urbanizzazione, una entrata comoda per ogni amministrazione comunale. Con questo obiettivo si è spesso svenduto il territorio.

E costruito in aree a rischio.

Dove la pianificazione è stata accorta, si è permesso di costruire in aree senza rischi idrogeologici; in molti casi invece, per ignoranza di tecnici e politici, si è permessa la costruzione in aree a rischio, ma l’importante è sempre solo stato recuperare gli oneri.

Questo non solleva un problema squisitamente politico?

Altroché. Se si facesse il conto del territorio vergine – cioè mai costruito – attualmente edificabile – ma non ancora edificato – nella pianificazione dell’insieme dei comuni d’Italia, vedremmo numeri impressionanti; e questo pur essendo la nostra nazione con un tasso di natalità negativo, dove quindi tendenzialmente non dovrebbero servire nuove residenze, nuove scuole e via dicendo. Insomma, non c’è assolutamente bisogno di edificare in territori ancora intatti e naturali.

E dove lo facciamo?

Ci sono, e sono sempre più diffuse, aree dismesse più o meno grandi, spesso all’interno dei centri urbani e delle aree artigianali e industriali. Bisognerebbe quindi lavorare nella “rigenerazione urbana”, andando a intervenire – demolendo o conservando – sugli spazi esistenti. Oltretutto le zone già costruite sono quelle che storicamente possono garantire maggiormente a riguardo del rischio idrogeologico.

Ci sono esempi virtuosi, o per lo meno tentativi?

Di recente, prima del Pnrr, un bando nazionale per la costruzione di nuovi edifici scolastici premiava il fatto che essi fossero costruiti in sostituzione di quelli vecchi esistenti, assegnando più punti a interventi di questo tipo. Il problema è che costruirli costa molto di più, perché prima c’è da demolire con costi non trascurabili nell’economia di un edificio. I costruttori, se possono, vanno ovviamente a costruire su terreno vergine.

Qual è la ricaduta ambientale, a parte l’occupazione di nuovo suolo?

Tenga conto che solo da pochi anni si è attivata la prassi dell’invarianza idraulica. In generale la costruzione nuova diminuisce la permeabilità del suolo, l’acqua che non permea, che ora è sempre più spesso di grandi quantità per le modificazioni che tutti riconosciamo negli eventi meteorologici più rari ma sempre più intensi, tende a scorrere sulle superfici, a ingolfare gli impianti di raccolta delle acque in ambito urbano, a far saltare i tombini e quindi ad aumentare il rischio di fenomeni legati alle inondazioni anche in territori senza un vero e proprio rischio idrogeologico.

Lei cosa farebbe?

A mio avviso andrebbe attuato un vero e proprio azzeramento dei diritti edificatori per tutti quei terreni non ancora edificati, anche se su di essi gli strumenti di pianificazione attualmente consentono l’edificabilità. Solo così si può forzare il mercato edilizio verso la rigenerazione urbana, rispettando l’ambiente. Ovviamente, come sempre, salvo eccezioni. Purtroppo ora rimangono ancora una eccezione gli interventi di rigenerazione.

(Federico Ferraù)

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