Il voto anticipato in Italia – minaccia o timore, spettro o stendardo – sembra assomigliare a modo suo alla pace in Ucraina: tutti dicono a gran voce di volerla, ma poi nessuno vi è realmente interessato (tranne chi muore al fronte), e quindi al momento non si fa.
Di elezioni anticipate in Italia si sussurra da settimane, ma in pubblico se ne accenna al massimo in modo laterale, come, ad esempio, dopo il voto locale di domenica scorsa. “Uniti si vince”, ha proclamato di nuovo la leader del Pd, Elly Schlein; assai meno gli “uniti” M5s e Avs.
E poi fra due settimane è annunciata una sconfitta del centrosinistra nelle urne: quella dei referendum sul lavoro, che – a meno di colpi di scena – i promotori perderanno per mancanza di quorum (non irrilevante in termini più ampiamente elettorali), ma soprattutto perché una questione nata come politicamente divisiva nel perimetro della sinistra pare destinata a concludersi come tale, con prevedibili strascichi polemici dopo il voto.
Nondimeno, ad elezioni anticipate paiono interessati in molti, anche se spesso solo dietro segnali in codice. Lo è la stessa premier Giorgia Meloni, che pure i media internazionali dipingono come la leader più stabile nelle democrazie occidentali, con ancora due anni pieni di legislatura davanti, sotto la protezione, di fatto, degli Usa di Donald Trump e all’interno di una Ue il cui simbolo ormai ridicolo è Emmanuel Macron, schiaffeggiato dalla moglie durante un’ancor più ridicola trasferta-fuga in Vietnam.
In realtà, Meloni un po’ tentata dal voto verosimilmente lo è, nella misura in cui se ne sente anche un po’ minacciata. Il suo FdI è solido e abbondante nei sondaggi – probabilmente per difetto – rispetto al risultato del 2022 (ma con una flessione a Genova, città simbolo di questa tornata, dove FdI ha preso 28.234 voti contro i 29.433 delle regionali 2024; la Lega 15.757 voti contro i 14.309 di un anno fa, FI 8.589 contro 8.944).
E non hanno certo stupito gli ennesimi rumor di avvicinamenti di FI ad Azione, se non addirittura di abboccamenti con altre forze centriste, non esclusi i cattodem, ormai insofferenti del Pd a guida Schlein, sempre più protesa verso un campo largo orientato alla sinistra antagonista.
Una politica allo stato puro come Meloni non può non essere attratta dalle chance di un jackpot elettorale: la conquista di una seconda legislatura con una maggioranza parlamentare in qualche modo piena, non più condivisa in una coalizione.
Questo anche a confronto della situazione politico-elettorale negli altri grandi Paesi Ue: la Francia paralizzata e ostaggio di un presidente sfiduciato dopo una scommessa suicida sulle elezioni anticipate; una Germania dove un cancelliere neo-eletto – in elezioni anticipate – è stato battuto al primo voto di fiducia; una Gran Bretagna in cui il gabinetto laburista è già in crisi un anno dopo una risicata vittoria elettorale.
Ancora: una nuova e rafforzata affermazione elettorale di Meloni, come minimo, potrebbe neutralizzare le residue ma visibili velleità di opposizione ibrida – politico-istituzionale – da parte del Quirinale di Sergio Mattarella. Forse, anzi, tornerebbero attuali le valutazioni d’opportunità – silenziose ma da tempo trasversali nell’arco politico – sulla conclusione del secondo mandato da parte di Mattarella, che ha superato la durata-record di dieci anni di permanenza al Quirinale e sta totalizzando un ventennio di quasi-regime Pd alla Presidenza, a dispetto dei risultati elettorali sempre perdenti e in chiave di sempre più accentuato semipresidenzialismo di fatto.
Ma paiono queste le ragioni che potrebbero vedere Mattarella inizialmente favorevole a una fine anticipata della legislatura da lui gestita, come ultima occasione per opporsi al consolidamento della destra conservatrice in Italia. Il ribaltone del 2019 contro Matteo Salvini verosimilmente non è più praticabile, anche se probabilmente non impossibile agli occhi dei “grandi vecchi” dem.
Basti pensare, peraltro, alla scomparsa di Papa Francesco e al rovesciamento della “questione antisemita”, agitata all’epoca (nel 2019) in funzione anti-destre dalla senatrice a vita mattarelliana Liliana Segre. E, soprattutto, l’Europa ha oggi equilibri politici completamente diversi da quando David Sassoli – spinto dal lobbismo cattodem della Comunità di Sant’Egidio e prematuramente scomparso – divenne presidente dell’europarlamento.
È vero che nell’agosto 2019 Trump 1 si spese a favore della conferma trasformistica di “Giuseppi” Conte, ma all’interno di una specifica cornice “transazionale” con Palazzo Chigi (l’urgenza di informazioni sul cosiddetto “caso Milfsud”) e comunque lontano da ogni simpatia per il partito gemello in Italia dei “dem” statunitensi (un Pd oggi guidato da una cittadina americana organica al partito di Obama-Biden).
Oggi, in ogni caso, i cattodem che hanno in Mattarella il loro leader ultimo hanno perso da tempo i crismi di partito-baricentro della governabilità in Italia: in proprio, con Mattarella al Quirinale o con Romano Prodi al governo, o per il tramite di tecnocrati europeisti come Mario Monti o Mario Draghi.
Il governo Conte 2 è parso – in retrospettiva – l’ultimo hurrà della legislatura precedente, governata dal patto del Nazareno fra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, prodromo dei “cordoni sanitari” tentati negli ultimi tempi in Francia e Germania (o perfino negli Usa) contro le cosiddette “destre populiste” – e regolarmente perdenti.
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