Nei giorni in cui celebra il bicentenario dalla nascita di Fedor Dostoevskij riemerge – grazie alla pubblicazione del portale “Aleteia” – una riflessione del 2015 dello scrittore e professore di liceo Alessandro D’Avenia in merito alla figura del geniale romanziere russo. Dostoevskij, come Van Gogh e Dante, sono tre dei “capisaldi” culturali e archetipici più volte raccontati da D’Avenia nel corso delle sue opere: lui, più di tanti, riesce a coglierne la grandezza restituendo al lettore il radicale significato proposto dal “genio”, incarnato nella nostra realtà di tutti i giorni.
E così come scrive sul “Corriere della Sera” in questi giorni della libertà “infinita” di cui dispongono i personaggi dei romanzi di Dostoevskij, ecco che in quello scritto del 2015 riaffiora un’altra tematica centrale dell’opera dostoevskijana. Il sottosuolo: «ci racconta l’uomo in modo romantico, quasi melodrammatico, il mondo dei poveri. Lo guarda con la compassione di colui che è già salvo, infatti lo fa dall’esterno. In Siberia è stato a contatto con i poveri, è stato lui stesso spogliato di tutto. E dopo esser tornato alla vita, scrive le Memorie del sottosuolo, in cui quello che fa è proprio quello che hanno fatto Dante con la Divina Commedia e Agostino con le Confessioni». Leggendo il Vangelo durante il drammatico freddo siberiano, Dostoevskij – spiega D’Avenia – ha scoperto «che Cristo ha passato trent’anni della sua vita a essere uno qualunque, a lavorare, a fare il falegname. Scopre che ogni storia umana può diventare quella narrazione divina, perché Dio si è fatto carne e ha assunto, come Dio, tutta la condizione umana».
“LA CONVERSIONE SALVERÀ IL MONDO”
Ma il vero snodo di tutta la poetica di Dostoevskij sono proprio le Memorie: lì il protagonista si ritrova devastato e sbandato dall’enorme e annichilente sottosuolo. Proprio come il Raskolnikov di “Delitto e Castigo”, l’uomo dostoevskijano si rende conto della bellezza salvifica solo all’interno del proprio sottosuolo, del proprio “delitto”, della propria devastante delusione d’amore. “La bellezza salverà il mondo”, è forse la citazione più famosa di Dostoevskij, ma anche quella più “banalizzata” e forse non sempre colta profondamente. D’Avenia coglie invece benissimo il punto e sottolinea come quella “bellezza” non sia affatto quella estetica, neanche quella “morale”: «Non è la bellezza estetica come compiacimento della seduzione delle forme e dell’armonia, la bellezza consumabile». Parla invece di qualcos’Altro, come infatti chiarisce nel capolavoro “I fratelli Karamazov”: «parlando di bellezza, contrappone l’ideale della Madonna a quello di Sodoma, svela questo: la bellezza trasformante si accoglie, quella distruttiva si consuma». Una bellezza che trasforma, che “converte” e che permette alla libertà dell’uomo di aderire a quello che ripete uno dei suoi personaggi principali, «Se amerete ogni cosa, in ogni cosa scorgerete il mistero di Dio».