A Washington una coppia israeliana è stata uccisa al grido di “Free Palestine”. Va rotto il filo che lega le proteste per Gaza all’antisemitismo
La direzione è quella indicata da papa Leone XIV: disarmare le parole. Perché, altrimenti, oltre alle proteste legittime si può dare adito anche alla violenza. Lo dimostra la vicenda di due dipendenti dell’ambasciata israeliana a Washington, uccisi a colpi di arma da fuoco al grido di “Free Palestine”. Yaron Lischinsky e Sarah Milgrim erano una coppia, in procinto di fidanzarsi, e sono deceduti per mano di Elias Rodriguez, che li ha aspettati al Jewish Museum della capitale americana. L’FBI lo ha definito un atto di terrorismo.
C’è un clima di tensione, osserva Rita Lofano, direttore responsabile dell’AGI, che diventa terreno di coltura di un antisemitismo che covava negli animi anche prima delle proteste per il trattamento riservato dagli israeliani ai palestinesi nella Striscia.
Un comportamento, quest’ultimo, che va stigmatizzato, ma valorizzando le “armi” della diplomazia. Per questo, dice il pontefice, vanno misurate le parole, mettendo intorno a un tavolo tutti gli attori interessati alla vicenda, per tentare di trovare una soluzione. Magari con il papa mediatore. La figura di Leone XIV negli USA sta suscitando grande interesse, e nell’amministrazione Trump i due ruoli più importanti, vicepresidente e segretario di Stato, sono appannaggio proprio di due cattolici.
Quanto è grave questo attentato, non solo per le perdite umane, ma anche per la sua portata e il rischio che sia il primo di una serie?
Ovviamente siamo tutti inorriditi per quello che succede alla popolazione a Gaza, e mi sembra che siano cresciute anche le pressioni internazionali perché si facciano entrare gli aiuti umanitari nella Striscia. Altra cosa è quello che succede nelle proteste: siamo arrivati agli attentati, ma anche i toni a livello politico si sono alzati. Si tende a esacerbare lo scontro, fomentando l’antisemitismo: gli si dà libero sfogo, passando da proteste più che legittime ad atti violenti.
Al Salone del libro di Torino ci sono state manifestazioni violente: è stato impedito di parlare a chi non era allineato su posizioni fortemente pro-Pal. Il clima è davvero pesante: gli ebrei in tutto il mondo hanno paura.
Un clima esasperato a partire anche dal blocco degli aiuti umanitari disposto dagli israeliani per Gaza?
Il rispetto del diritto internazionale e umanitario va garantito da chiunque, a partire da Netanyahu. E mi sembra che la pressione internazionale su di lui sia forte. Tutti pensano che abbia passato il limite, io compresa, perché vedere certe scene è aberrante. Ma temo che il problema di questi attentati, di queste proteste pro-Pal, non sia la questione palestinese, ma l’antisemitismo. Credo che ci sia un clima politico tale che, con la scusa di manifestare il dissenso rispetto a quello che sta facendo Netanyahu a Gaza, in realtà si finisca per dare libero sfogo alle peggiori pulsioni antisemite.
Il governo israeliano attribuisce la sparatoria alla retorica antisemita alimentata anche dai leader europei e mondiali che hanno criticato l’operato di Israele. Una forzatura?
Alcuni governi, tipo la Francia, hanno annunciato che riconosceranno la Palestina. Mentre si tratta per arrivare a una tregua, però, non si può dare corso a una diplomazia a strappi. Occorrono negoziati discreti, possibilmente con un Occidente unito e il coinvolgimento dei Paesi arabi moderati, non riconoscendo la Palestina ognuno per conto proprio. Per avere due popoli e due Stati occorre un compromesso: non ci si arriva con dichiarazioni di condanna. E occorre una soluzione per cui Hamas lasci la Striscia, magari con l’aiuto dell’ANP.
Trump come reagirà all’attentato? Cambierà approccio alla questione palestinese?
Credo che si rafforzerà il legame con Israele: questo tipo di azioni ha anche un effetto boomerang rispetto alle intenzioni di chi le compie. La bussola per Trump restano gli accordi di Abramo, lo abbiamo visto nel corso del viaggio in Medio Oriente. Per certe cose ha bypassato senza problemi Netanyahu, ma il presidente americano resterà a fianco di Israele.
Cosa bisogna fare, allora, per disinnescare questo meccanismo che porta alla violenza anche al di fuori della Striscia?
La guerra deve finire: bisogna cercare una soluzione diplomatica, puntare al rilascio degli ostaggi, arrivare a un accordo. Non c’è una bacchetta magica: bisogna far leva su Netanyahu per dar fiato alla popolazione civile di Gaza, su Hamas perché rilasci gli ostaggi, e sui Paesi arabi moderati, così come sull’Autorità Nazionale Palestinese. Occorre coinvolgere tutti gli attori nella regione e il fronte occidentale: l’Occidente si deve muovere il più unito possibile. Ma, se si vuole una soluzione diplomatica, bisogna essere prudenti anche nelle dichiarazioni. Bisogna partire dalla politica. A me piace molto questo papa, che potrebbe essere un mediatore nella guerra russo-ucraina. E Leone XIV ha detto una cosa importante: “Disarmiamo le parole”.
Il papa potrebbe giocare un ruolo anche nella crisi mediorientale?
Quando ha parlato di Russia e Ucraina non ha semplicemente detto a Kiev di alzare bandiera bianca per arrivare alla pace a tutti i costi: ha parlato di pace giusta. E quando si è trattato di Israele e Gaza ha detto di rispettare il diritto umanitario, di far arrivare gli aiuti, ma anche di liberare gli ostaggi. Questa mi sembra equidistanza. Ai giornalisti ha chiesto di disarmare le parole, ma vale anche per la politica, perché le posizioni politiche hanno un peso nell’accendere gli animi. Non so se potrà avere un ruolo; penso, però, che sarebbe disponibile.
Ricevendo Vance, Leone XIV ha detto che serve un dialogo con gli ebrei in tempi segnati da incomprensioni.
Il suo background, il suo essere americano porta un punto di vista diverso. In America, rispetto a questo papa, c’è un’attenzione che non si era mai vista prima da parte dei media. Non dimentichiamoci che Trump per vincere le elezioni si è alleato con i cattolici. Non per niente nella sua amministrazione ci sono due cattolici in ruoli chiave: J.D. Vance e Marco Rubio. Non è così comune nella politica americana, nella quale ci sono stati solo due presidenti cattolici: Kennedy e Biden. Il papa, insomma, può giocare un ruolo.
(Paolo Rossetti)
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