Mentre un nuovo tracollo ha investito Wall Street e gli Usa rischiano la recessione, l’Europa e l’Italia non presentano debolezze strutturali. Tuttavia la Ue non sembra capace di andare oltre i provvedimenti di emergenza per tutelare il sistema bancario. Occorre allentare il patto di stabilità e l’Italia deve approfittarne per alleggerire la pressione fiscale. Lo dice a ilsussidiario.net Mario Deaglio, economista, docente di economia internazionale nell’Università di Torino ed editorialista economico de La Stampa
Professor Deaglio, lei ha recentemente fatto notare la mancanza sostanziale di un coordinamento tra i vari attori europei per far fronte alla crisi degli istituti di credito.
Non si stanno facendo scelte. Si passa dai veti incrociati a provvedimenti imposti da una situazione di emergenza, di fronte alla quale un accordo comunque lo si trova. Lo abbiamo visto l’altro giorno: i paesi hanno introdotto garanzie per le banche, con varianti nazionali, e garanzie per i consumatori, con un certo minimo di copertura dei depositi, sopra il quale ognuno dei paesi poteva poi decidere autonomamente.
Che cosa l’Europa non sta facendo?
Là dove la soluzione implica non soltanto un adeguamento normativo, ma, anche solo in via remota, la possibilità di un trasferimento di fondi, come nel caso di un fondo europeo di sostegno alle banche, allora siamo fermi e vediamo tutti i limiti dell’Ue. C’è la difficoltà di uscire da ragionamenti limitati all’ambito nazionale in tutto quello che comporta potenzialmente un trasferimento di risorse ad altri partner. I tedeschi, per esempio, dicono no da quando esiste l’Ue, perché hanno paura di pagare più degli altri.
Cosa pensa del dl approvato l’altro ieri dal governo per evitare il fallimento delle nostre banche?
Distinguerei due filoni nel provvedimento: uno è la garanzia ai depositanti, l’altro è un fondo di aiuto alle banche. La prima è una misura che sarà efficace se sarà a costo zero, cioè se i depositanti, sentendosi garantiti, non porteranno via i soldi dalle banche. Direi che è un provvedimento che si colloca sul piano psicologico della ricostituzione della fiducia, che in questa fase è molto importante. Invece l’intervento sulle banche parte dal presupposto che, pur essendo le banche italiane potenzialmente al sicuro, possano risultare “infettate” da banche straniere con le quali hanno o hanno effettuato operazioni a rischio. Le banche italiane sono sicure, ma questa condizione nel perimetro della crisi non è garantita per sempre.
Tremonti ha detto che il provvedimento punta a dare “una garanzia pubblica nella consapevolezza che non sia necessario”. Avremo banche sotto tutela?
L’eventualità che le banche siano nella situazione di dover ricapitalizzare, ha portato a questo provvedimento, che peraltro non ha fondi. Se applicassimo rigorosamente il principio costituzionale per cui si deve indicare chiaramente la fonte di ogni legge di spesa, ci troveremmo in difficoltà. C’è poi un altro aspetto del provvedimento che deve far pensare: l’eventualità che attraverso questo decreto il governo finisca per avere un’influenza impropria sulle banche, rimangiandosi un po’ di quel principio di autonomia bancaria introdotta dagli anni ’90 in poi.
Lo Stato sottoscriverebbe azioni senza diritto di voto.
Lo Stato sottoscrive azioni non votanti, ma quando si sottoscrive un capitale indispensabile è difficile poi non avere voce in capitolo. Non vorrei che ci fosse uno shift del potere bancario in senso governativo: andrebbe contro la filosofia che vede nell’autonomia della banca un fattore importante, soprattutto in Italia. Dove – nonostante continue recriminazioni dei consumatori – le banche possono avere commesso qualche peccatuccio, certo, ma nulla di paragonabile a quanto è avvenuto per le banche americane.
È difficile abbozzare uno scenario per gli Usa…
Negli Usa c’è una crisi economica seria, dalla quale non si tireranno fuori così in fretta. La struttura economica che sta “sotto” la crisi delle banche, si badi bene, è tutt’altro che robusta. Gli Stati Uniti si sono specializzati in questi anni in finanza, chimica, elettronica, ma il resto non c’è più. Non fanno più meccanica, per esempio costruzioni ferroviarie come in passato, e se continua così il loro settore auto andrà presto in crisi. Assistiamo là ad un distacco tra finanza ed economia reale. Senza avere i mezzi per approfittare di una caduta del dollaro con le esportazioni, si troveranno in un pasticcio. Dovranno mettere a frutto tutte le loro risorse in termini di flessibilità.
La situazione è diversa in Europa?
Sì. Paesi come l’Italia hanno una manodopera industriale più alta della media dei paesi avanzati, Italia Germania e Francia sono paesi in cui l’industria connota l’economia, anche se non è più la prima fonte di occupazione. È una struttura che motiva la gran parte dei servizi, molti dei quali restano legati all’industria. Si tratta allora di curare questa struttura, limitando le cure al solo suo comparto finanziario là dove ne abbia bisogno.
Il nostro modello bancario, più legato al territorio e all’impresa, sembra per ora non aver risentito dei pericoli legati all’eccessiva finanziarizzazione. È una virtù?
A mio avviso la risposta non può essere univoca. Sicuramente il modello finanziarizzato ha elementi di efficienza. E l’efficienza vuol dire anche dare soldi a persone che non ne avrebbero. Non si deve dimenticare che il meccanismo dei mutui subprime fino ad un certo punto ha funzionato e che gli insolventi sono il 10-15 per cento del totale: l’85-90 per cento delle persone hanno potuto avere una casa con un lavoro precario e comunque in situazioni difficili.
D’altra parte la finanza speculativa ha avuto eccessi di complessità. Qualche mese fa un autorevole articolo sul WSJ diceva che al mondo ci sono solo 800 persone che possono comprendere l’andamento di certi titoli. Troppe persone hanno venduto e comprato prodotti che non conoscevano con esattezza. Su questi elementi, che sono distorsivi e si possono correggere, si innesta poi una riflessione di fondo sull’evoluzione del capitalismo americano.
Quale?
In dieci anni – e il caso Enron è stato il primo esempio – si è sgretolata un’etica degli affari molto rigorosa, tipica del protestantesimo, in cui l’impegno e la dedizione personale erano quasi tutto. Le leggi che ne sono scaturite non hanno messo a posto i circuiti finanziari. Alcuni dei quali sono fatti espressamente per sfuggire all’analisi delle autorità. Non è un caso che il governatore Draghi, parlando della finanza internazionale, abbia parlato di “finanza parallela”. Pronunciata dal presidente del Financial Stability Forum, o dal governatore di una banca centrale, suona come un’espressione pesantissima. Troppe banche avevano o hanno società che non consolidano nel bilancio perché vi fanno passare operazioni che non sarebbero certamente approvate dalle autorità di controllo.
Siamo di fronte ad una crisi di fiducia e le banche non si prestano più reciprocamente i soldi. Cosa fare per rimettere in moto il circuito del credito?
Credo francamente che una soluzione – nel senso di un intervento di tipo “meccanico” – non sia possibile. L’unico esempio che abbiamo è la crisi giapponese degli anni ’90. Le banche giapponesi lavoravano in modo quasi totalmente coperto, non erano nemmeno obbligate a fare il consolidato. Hanno impiegato dieci anni a venire a capo della crisi, ma per dieci anni il Giappone non è cresciuto. Quello che può succedere in una situazione del genere è che il dollaro perda il primato di moneta mondiale. E che i paesi emergenti adottino una propria moneta internazionale. I paesi asiatici hanno già fatto passi su questa strada. I paesi petroliferi progettano una moneta basata sul petrolio e a quel punto noi dovremo usare le loro monete per scambiare con loro.
Cosa può fare l’Italia per gestire le conseguenze in termini di economia reale di questa crisi globalizzata?
C’è poco da fare perché da quando esiste l’euro le leve monetarie non ci competono più. Possiamo adoperarci perché il patto di stabilità sia interpretato in maniera più flessibile, spendendo in detassazione quei 15, 20 miliardi di euro in più che potremmo ritrovarci da un aumento del limite consentito del deficit pubblico. E poi sperare che la stabilità delle banche continui.
Questa crisi come cambierà lo scenario?
Credo che questa sia la fine della globalizzazione basata sull’eccesso di mercato e sul predominio di un solo paese. Abbiamo davanti un periodo incerto, sicuramente multipolare, di grande confusione e di crescita più bassa, le cui spese saranno sostenute dai paesi più poveri. Se un paese possiede risorse o una struttura produttiva, ha di che presentarsi e “combattere”, ma senza risorse è destinato a precipitare.
Questa crisi, a suo avviso, mette in discussione un modo di concepire l’attività finanziaria, basata sulla speculazione anziché sulla responsabilità di creare ricchezza per lo sviluppo?
Sì e direi di più: mette in crisi un orientamento che schiaccia tutto sul presente. Gran parte dei guai sono derivati dal fatto che i manager venivano pagati sulla base di risultati di breve o brevissimo periodo. Ora, le plusvalenze vengono realizzate, ma siamo agli antipodi di un profitto duraturo.